"Persone, non numeri"

Gabriella

Di fronte al dramma dei migranti perché, anche per i cristiani, sembra così difficile rispondere con accoglienza e carità? 

“I profughi sono persone non numeri” Con queste parole scritte in un tweet tre anni fa, durante il suo viaggio verso l’isola di Lesbo, Papa Francesco richiamò l’attenzione dei cristiani e del mondo sul dramma dei migranti, ricordando a tutti che cosa si avesse realmente davanti agli occhi: uomini, donne e bambini, anziani e adolescenti rimasti soli, fermi ai confini della ricca e colta Europa, in attesa di essere ammessi a proseguire il proprio viaggio verso una nuova vita. Persone provate dalla guerra, dalla miseria, dalle violenze, dalla fatica e dai lutti, obbligate a scappare dalla proprie città distrutte per non morire. Persone quindi, non numeri. Da allora il fenomeno migratorio non è cambiato assumendo dimensioni sempre più grandi e suscitando reazioni sempre più dure. E diventando un vera emergenza sociale dei nostri tempi. Ma realmente, emergenza sociale per chi? Se da una parte, ogni giorno, ci siamo trovati di fronte alla necessità di salvare la vita a centinaia di persone, piangendone altrettante inghiottite dal mare, dall’altra abbiamo visto crescere tra noi, nelle nostre città, nel nostro Paese e in Europa, posizioni ostili, scelte di non accoglienza, manifestazioni di razzismo e di chiusura. Abbiamo visto il filo spinato e le recinzioni a delimitare i campi profughi, bambini nascere in tende misere senza riscaldamento né acqua, padri e madri in cammino, con i figli al collo, in un lungo e disperato esodo, fermati dalla polizia e dai soldati.  
Di fronte a tutto questo, di fronte a questa immane richiesta di aiuto, noi cristiani e francescani, non possiamo non interrogarci. Il tema dei migranti è per noi una provocazione nel senso vero della parola, ci chiama ad un’azione forte, consapevole e immediata. Ci chiama a rendere manifesta la nostra volontà, a farci dire da che parte abbiamo scelto di stare. Per noi i migranti sono numeri o persone? Siamo disposti ad accoglierli innanzitutto nel nostro cuore e poi nel nostro Paese? A considerarli nostri fratelli in quanto siamo tutti figli di un unico Padre? Molti purtroppo sembrano averlo dimenticato o sembrano voler giustificare un rifiuto tentando di dare interpretazioni “fai da te” del Vangelo, spinti dall’esigenza di trovare una giustificazione a un comportamento (e a una scelta) di fatto inammissibili. Della Parola di Dio non si danno interpretazioni: “Ama il prossimo tuo come te stesso” non è una frase riservata alla nostra particolare vita, al nostro gruppo, al nostro vivere. È un’esortazione all’amore universale tra figli di Dio che non ammette tentennamenti: invita ad accogliere chi è straniero, a nutrire chi è affamato, a consolare chi è afflitto. Invita ad avere sete di giustizia, a non allinearsi all’indifferenza, ad avere carità e compassione per il fratello. Nei poveri c’è il volto di Gesù Cristo che chiama noi cristiani ad una risposta. E la risposta è in una sola parola: accoglienza.

Qualche settimana fa Don Dario Crotti, direttore della Caritas cittadina, durante un incontro avvenuto qui in Santuario, proprio sul tema dei migranti, ci ha raccontato questo fenomeno che oramai stiamo vivendo da anni. Ci ha portato la testimonianza di chi queste persone le ha accolte e gli ha offerto un percorso di integrazione che è bene ricordare è legittimo, ovvero un diritto garantito dalle leggi e dai trattati riguardo la protezione internazionale e riconosciuto dal nostro Paese. Dopo un primo momento di grande difficoltà dovuto ai numerosi arrivi l’accoglienza è stata organizzata secondo una forma diffusa, con l’assegnazione di un piccolo numero di persone a strutture non di grandi dimensioni e anche in piccoli comuni. Così è successo a Pavia. I ragazzi e le ragazze accolti e le famiglie (presenti in misura minore perché tra quelle giunte in Italia molte sono riuscite a proseguire il viaggio verso i Paesi del Nord) sono stati ospitati in varie sedi e hanno potuto accedere a corsi di lingua italiana, all’avviamento al lavoro e, in alcuni casi, ad una prima occupazione. Sono diventati parte della comunità facendosi conoscere, superando la diffidenza dei cittadini, inondati di false notizie e paure ingiustificate. Abbiamo imparato a chiamarli per nome, a comprendere le loro storie e commuoverci vedendo la loro felicità al pensiero di poter restare e cominciare una nuova vita. Ma soprattutto al pensiero di non sentirsi respinti. Un fatto che purtroppo accade ancora troppo spesso ed è conseguenza di una ignoranza diffusa che fa percepire lo straniero una minaccia verso le proprie piccole ricchezze. O ancora li classifica come degli ipotetici concorrenti in una gara tra povertà che gratifica solo chi dei poveri ha iniziato ad accorgersene ora, ma non li aiuterà mai. Nella povertà non ci sono primati se non quello di non rinunciare mai ad aiutare. È una legge dell’uomo, è un santo precetto di Dio. Ignorarlo è commettere peccato. Da cristiani non capirne le ragioni è ipocrisia, è vivere una fede distorta e modellata sulle proprie esigenze. Può essere difficile superare le proprie paure, non farsi influenzare, provare a considerare il fatto che il mondo in cui viviamo, come insegna il Padre San Francesco, è un dono per tutti noi, a nessuno di noi appartiene e quindi è di per sé condiviso e condivisibile.
Poi certamente restano i problemi generati dall’arrivo disorganizzato di migliaia di profughi. Ma i problemi si risolvono ponendo in atto soluzioni efficaci che sono possibili ovunque. Di fronte a questo fenomeno che non può più essere considerato un’emergenza, ma un momento forte della nostra storia, dipende veramente da noi voler tendere la mano, sapendo che la si sta tendendo a coloro che Gesù Cristo ha scelto per rinnovare nei nostri cuori la sua istanza d’amore.

(Gabriella by CanepaLab)

 

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