La fede nel tempo dell'incertezza - Catechesi Quaresima 2021

Geremia

Una fede lacerante

Geremia è tra i profeti biblici quello di cui si hanno maggiori notizie biografiche. I primi versetti del libro (Ger 1, 1-3) di Geremia ci danno alcune indispensabili notizie su chi questo profeta e sulla sua attività, ma è la lettura di tutto il libro ce ci fa comprendere tutto il travaglio di questo profeta. Visse e predicò tra il 622 e oltre il 587 a.C., sotto i regni di Giosia, Joakim e Sedecia. Sotto questi re, accaddero avvenimenti dolorosissimi che portarono Gerusalemme alla catastrofe, con la sua caduta e la distruzione del Tempio (e con esso, a tutte le istituzioni che reggevano il popolo di Dio).

Avvertendo la minaccia crescente della potenza babilonese, cercò di impedire la distruzione del regno di Giuda, suggerendo una politica accomodante; ma in tal modo si inimicò la classe dirigente e il popolo e fu perseguitato e imprigionato. Dopo la distruzione del Tempio e la morte del governatore ebreo Ghedalia, Geremia fu costretto a seguire un gruppo di esuli verso l’Egitto, e da quel momento non si hanno più notizie di lui.

Il Significato del nome Geremia è stato oggetto di molte interpretazioni. L’etimologia che trova più riscontri è “il Signore è esalato”, ma ce ne sono anche altre molto belle e che forse aprono ugualmente degli spiragli sulla realtà di questo profeta, “il Signore innalza” ma anche “gettare le fondamenta”. Un etimologia particolarissima è “il Signore apre il ventre”. Quest’ultima è sicuramente interessante e potrebbe essere interpretata in diverse maniere. Forse come un riferimento a quello che ascoltiamo nella sua vocazione, dove Dio dice di conoscere Geremia fin da quando era nel ventre di sua madre. O forse questo nome potrebbe significare la lacerazione che questo uomo di Dio sperimenta nella sua vocazione.

La vocazione di Geremia

Mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: «Sono giovane».
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.
Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare».
(Ger 1, 4-10)

Ancora una volta, si ribadisce innanzitutto l’assoluta libera e gratuita iniziativa di Dio. La chiamata è frutto dell’amore di Dio e non della volontà dell’uomo. I veri profeti d'Israele sono tutti carismatici, non cresciuti nelle scuole di profeti. Ma la vocazione di Geremia, mette in luce anche che gratuità di Dio non significa improvvisazione. La chiamata non è, da parte di Dio, una decisione improvvisa, ma la conclusione di un lungo amore, di un piano di salvezza accuratamente studiato: è fin dalle «origini» che Dio sta pensando a Geremia. Certo, anche è capitato (capita o capiterà) di sperimentare l’istantaneità di una chiamata di Dio, quasi come una irruzione inaspettata. Ma questo avviene perché l’uomo è chiuso nel suo piccolo orizzonte della propria storia. In realtà - nell'orizzonte più ampio di Dio - la chiamata fa parte di un piano, si inserisce in una logica, e l'immediatezza che l'uomo sperimenta è semplicemente il segno - leggibile a livello di esperienza umana - della gratuità della chiamata divina e della rottura che essa introduce nella propria vita.

L'uomo avverte, di fronte alla chiamata e al compito che gli viene proposto, tutta la propria debolezza, la sproporzione fra lo strumento che Dio sceglie (non potrebbe chiamare strumenti migliori?) e lo scopo che pretende raggiungere.

«Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: «Sono giovane».
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».

Dio non arretra di fronte alla debolezza dell'uomo. Al contrario, sembra addirittura esigerla, perché è proprio nella debolezza dell'uomo che l'azione di Dio appare in tutta la sua potenza, mostrando - al profeta e al popolo - che la salvezza è di Dio, non dell'uomo. Non è dunque in se stesso che il profeta deve guardare e non è in se stesso che deve trovare la forza per svolgere il suo compito. Deve rimane fedele alla parola di Dio e ad essa aggrapparsi

Geremia è definito profeta delle genti: «Ti ho stabilito profeta delle nazioni» (1, 5) . Dunque, la parola del profeta non riguarda soltanto il cerchio ristretto di una città alle prese con i problemi della sua fine, ma riguarda tutti i popoli. I profeti sono sempre il segno che Dio si interessa al mondo intero.

Nella sua vocazione Geremia non ha veduto nulla di straordinario (assai diverso, ad esempio, il caso della visione di Is 6). Geremia vede soltanto un ramo di mandorlo in fiore (il nome ebraico del «mandorlo» significa «uomo che vigila») e una pentola che bolle, rivolta a nord. Eppure queste due cose - semplici cose della vita quotidiana - diventano per lui cariche di lezione. Fa parte dello stile di Geremia: imparare dalla vita quotidiana, che per chi sa vedere è carica di segni e di avvertimenti. Nella bottega di un vasaio (c. 18), osservando con quanta maestria e libertà l'artigiano modella la creta, comprenderà che Dio usa della stessa libertà verso l'uomo. E passando, un altro giorno, nei pressi del tempio vedrà due canestri di fichi, uno di fichi buoni e l'altro di fichi cattivi: ciò gli farà venire in mente che anche il popolo di Dio è diviso in due, i buoni e i cattivi (i buoni sono quelli in esilio: c. 24).

Ciò che il profeta annuncerà sarà senza dubbio efficace (anche se spesso, come mostra la sua vicenda, sembrerà di no). Dio è fedele, Dio mantiene la sua parola. È ciò che promette la visione del ramo di mandorlo. Ma molte volte l'efficacia che Dio lega alla sua parola non è come quella che gli uomini (e lo stesso profeta) vorrebbero. Geremia dovrà annunciare minacce e sciagure. Ciò gli frutterà derisione e incomprensione. Ma Dio lo renderà forte contro ogni ostacolo: come una città fortificata, come un muro di bronzo (1 , 18). Per annunciare la parola ricevuta, Geremia dovrà dunque affrontare molti avversari: di questo è avvertito sin dall'inizio. Dovrà affrontare, ad esempio, le autorità che non vogliono accettare il contenuto del suo messaggio. Dovrà opporsi a falsi profeti che pretendono, come lui, parlare in nome di Dio ma che annunciano cose diverse. Troverà la più completa solitudine anche da parte del popolo. Per trovare la forza di rimanere saldo , Geremia è invitato a ricordare la sua vocazione e a trovare fiducia nell'assicurazione di Dio: «Io sono con te per proteggerti» . E difatti Geremia avrà sempre un solo argomento in sua difesa, che egli opporrà a tutti coloro che lo contrastano: «Il Signore mi ha mandato» (26, 12).

Le confessioni di Geremia

Nonostante l’assicurazione della protezione di Dio, la vita del profeta Geremia è una vera via crucis; sperimenta la derisione e l’abbandono da parte del suo popolo e – ancora più lacerante – il silenzio di Dio.

Il libro di Geremia troviamo disseminate quelle che vengono chiamate le «confessioni di Geremia», nelle quali il profeta ci apre il suo intimo. Sono una lettura preziosa, perché ci permettono di conoscere le intime sofferenze, le delusioni, le crisi di un autentico uomo di fede. Sono preghiere, non semplici sfoghi, perché nascono dalla consapevolezza che Dio è in causa. Geremia, avrebbe voluto rapporti sereni e distesi, un clima di simpatia ed accettazione, invece Dio lo ha chiamato a proclamare una parola di giudizio, che suscita contese e divisioni. Tuttavia egli non ha mai nutrito sentimenti cattivi verso nessuno, neppure verso i nemici. Gli pesa la solitudine, è ingiusta.

È forse il brano delle “confessioni” più noto, quello che troviamo al capitolo 20. Una vera e propria preghiera, nella forma di preghiera/discussione.

Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;
mi hai fatto violenza e hai prevalso.
Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno;
ognuno si beffa di me.
Quando parlo, devo gridare,
devo urlare: «Violenza! Oppressione!».
Così la parola del Signore è diventata per me
causa di vergogna e di scherno tutto il giorno.
Mi dicevo: «Non penserò più a lui,
non parlerò più nel suo nome!».
Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente,
trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo.
Sentivo la calunnia di molti:
«Terrore all'intorno!
Denunciatelo! Sì, lo denunceremo».
Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta:
«Forse si lascerà trarre in inganno,
così noi prevarremo su di lui,
ci prenderemo la nostra vendetta».
Ma il Signore è al mio fianco come un prode valoroso,
per questo i miei persecutori vacilleranno
e non potranno prevalere;
arrossiranno perché non avranno successo,
sarà una vergogna eterna e incancellabile.
(Ger 20, 7-11)

Gli avversari lo deridono dicendo: «Dov'è la parola del Signore? Si compia finalmente!» (17, 15). Di fronte a queste derisioni Geremia è solo e impotente, disarmato. Perché Dio non interviene? Il profeta ha creduto alla promessa udita nel momento della vocazione: «lo sono con te per proteggerti» (1, 8). Ma ciò che è accaduto - e continua ad accadere - dopo la vocazione sembra smentire quella promessa. Dio sembra non essere di parola. È alla luce di questa situazione che comprendiamo la forte espressione del profeta: «Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti» (15, 18) . Per comprendere che cosa significhi un torrente infido occorre leggere un passo del libro di Giobbe:

«I miei fratelli sono incostanti come un torrente,
come l'alveo dei torrenti che scompaiono:
sono torbidi per il disgelo,
si gonfiano allo sciogliersi della neve,
ma al tempo della siccità svaniscono […].
Le carovane deviano dalle loro piste, […].
I viandanti di Saba sperano in essi:
ma rimangono delusi d'aver sperato,
giunti fin là, ne restano confusi.
(Gb 6, 15-20)

Ci sono torrenti che al tempo delle piogge invernali sono gonfi di acque abbondanti, ma poi nell'estate si disseccano. Non ci si può fidare di loro: nel momento del caldo e della sete ti abbandonano. Così sembra essere al profeta la promessa di Dio.

Geremia si era immaginato in modo molto diverso la presenza di Dio al suo fianco. Ed è proprio qui il punto , è qui la «purificazione» a cui Dio vuole condurlo. La promessa di Dio e la sua fedeltà sono diverse da come il profeta le pensava. Occorre un modo nuovo di pensare Dio. È la grande svolta a cui Dio ha tentato di condurre il suo popolo, ma inutilmente. Vuole che vi giunga almeno il suo profeta.

Così Geremia è invitato a «convertirsi»: una conversione profonda, teologica (nel modo di pensare Dio) prima e più che morale (nel comportamento).

Non è Dio che è infedele, non è lui che ha cambiato idea, ma è Geremia che ha sbagliato a capire: «Se ritornerai - risponde infatti il Signore al suo profeta che si lamenta - io ti farò ritornare e starai alla mia presenza» (15, 19) .

Ma nelle preghiere di Geremia non è espresso solamente il tormento e la crisi, troviamo, con altrettanta forza la gioia e la sicurezza. Discute con il suo Dio e vorrebbe smettere tutto:

«Mi dicevo: “Non penserò più a lui,
non parlerò più nel suo nome!”». (20, 9a)

Ma poi scopre nel profondo della sua anima una fedeltà che non gli permette di smettere, un amore alla Parola che nessuna smentita riesce a distruggere:

«Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente,
trattenuto nelle mie ossa;
mi sforzavo di contenerlo,
ma non potevo». (20, 9b)

...e riprende di nuovo la sua strada.

Altri versetti dove traspare la gioia di Geremia:

«Ma tu, Signore, mi conosci e mi vedi,
tu provi che il mio cuore è con te». (12,3)

«Quando le tue parole mi vennero incontro,
le divorai con avidità;
la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore». (15,16)

u sei il mio vanto» (17,14)

Come tutti i profeti, Geremia sperimentò nel profondo - pur nella sofferenza, nell'abbandono e nel rifiuto - il miracolo di una speranza indistruttibile e di un'inspiegabile serenità.

Hai detto: «non ti servo»

Anche Geremia, come Amos e Isaia, ha parole molto forti contro il peccato del popolo che consiste nell’allontanamento da Dio.

Il re Manasse aveva lasciato al successore Giosia una situazione molto pesante. Sulle alture di Israele c'erano i santuari pagani: prostituzione sacra e sacrifici di bambini erano tollerati. Perfino il tempio era popolato di idoli (2 Re 21, 3-7). Il re Giosia intraprese un'energica opera di riforma: purificò il tempio, distrusse i piccoli santuari pagani, rimise in vigore la legge del Signore. Ma Geremia denuncia, ancora una volta che questa è una riforma solo esteriore, non una vera «conversione del cuore» . E difatti sotto il regno di Joakim il paganesimo ritornò a dilagare.

Geremia parla di un Dio sovrano, padrone della storia: di fronte a lui ogni essere è docile e obbediente. Dio è come il vasaio che modella la creta: «Come l'argilla è nelle mani del vasaio, così voi siete nelle mie mani» (18, 6). Questo Dio sovrano è l'alleato di Israele, l'amico, lo sposo, il padre. Di fronte a un Dio così dovrebbe esserci posto soltanto per la gratitudine, l'amore, la docilità, la fiducia, soprattutto la fiducia. Invece no. A differenza degli altri popoli che non hanno mai cambiato i loro dei, Israele ha continuamente abbandonato il suo Dio:

«Un popolo ha cambiato i suoi dèi?
Eppure quelli non sono dèi!
Ma il mio popolo ha cambiato me, sua gloria,
con un idolo inutile». (Ger 2, 11)

I peccati, in superficie, sono molti, ma la radice del peccato è costituita sempre del medesimo atteggiamento. I verbi che lo definiscono sono monotoni: allontanarsi da Dio, andare dietro gli idoli, abbandonare il Signore. Nella sua vera identità il peccato è un sottrarsi alla sovranità di Dio: «Già da lungo tempo hai rotto il tuo giogo, spezzato i tuoi lacci e hai detto: non ti servo» (2, 20; cf 16, 10 ss; 22, 8 ss). Meschina illusione di libertà, dal momento che Israele - proprio mentre dice «non ti servo» - finisce col prostituirsi «sopra ogni altura e sotto ogni albero frondoso» (2, 20).

Che cos'è il peccato

Il peccato pretende essere intelligente, ma in realtà è «ottuso». Non realizza nulla di ciò che il peccatore spera di conseguire commettendolo. Si abbandona l'acqua di sorgente per scavarsi cisterne di acqua stantia: «Essi hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, per scavarsi cisterne screpolate» (2, 13) . Fuori metafora: «Andarono dietro al nulla, e diventarono essi stessi nullità» (2, 5). Al vero Dio si preferiscono gli idoli, apparenze vuote come «gli spaventapasseri in un campo di cetrioli» (cfr. 10, 5).

In realtà il giudizio circa il peccato è contenuto nel peccato stesso che distrugge il bene presente e rende impossibile quello futuro.

«La tua stessa malvagità ti castiga
e le tue ribellioni ti puniscono». (2, 19)

Se non ci fosse la fedeltà di Dio e il peccato potesse percorrere indisturbato il suo corso, esso farebbe ricadere il mondo nel caos primitivo, come vide Geremia in una visione:

«Guardai, ed ecco il giardino era un deserto
e tutte le sue città erano state distrutte». (4, 26)

La religione del cuore: la vera conversione

Eppure il messaggio di Geremia non è privo di speranza. C'è ancora una possibilità di trovare il Signore, e il profeta non si stanca di ripeterlo: «Ritornate, figli traviati, perché io sono il vostro Signore» (3, 14); «Ritornate figli traviati, e io sanerò le vostre apostasie» (3, 22); «Ognuno abbandoni la sua condotta perversa e le sue opere malvagie» (25, 5); «Abbandonate la vostra condotta perversa, emendate la vostra condotta, e non seguite altri dei per servirli» (35, 15).

Gli antichi valori religiosi, ai quali Israele dava molta importanza - come il tempio, Gerusalemme, la dinastia di Davide - non bastano più. Bisogna andare più in là. Quello che conta è di offrire al Signore il proprio cuore, completamente. È nella conversione del cuore che si può ritrovare il Signore: non è sufficiente la circoncisione della carne, occorre la circoncisione del cuore (9, 24-25). Dio non è prigioniero di un territorio, di una struttura, di una pratica religiosa. Lo si può trovare dovunque, a condizione però che si scenda nel profondo del proprio cuore. La conversione di cui parla Geremia non è una semplice sottomissione esteriore alle esigenze di Dio. Non è neppure, semplicemente, un'adesione sincera a una dottrina e a delle pratiche puntualmente compiute. È una trasformazione profonda, di tutto il proprio essere: un donarsi al Signore senza riserve.

È per tutto questo che la religione di Geremia è definita una religione «interiore» e «personale». Interiore, perché alle parole e alle azioni devono corrispondere la sincerità e la fedeltà del cuore. Personale, perché Dio non si lega a Israele nel suo complesso, ma vuole ciascun individuo uno ad uno . Personale, inoltre, perché - soprattutto - sia l'individuo sia la comunità non devono dare a Dio qualcosa, ma devono donare se stessi. Dio non vuole ciò che possediamo. Dio vuole ciò che siamo.

Geremia sa molto bene che questa conversione del cuore è impossibile all'uomo. È un miracolo che solo Dio può compiere:

«Guariscimi, Signore, e guarirò,
salvami e sarò salvato,
poiché tu sei il mio vanto». (Ger 17, 14)

Ma è un miracolo che si può sperare: perché non si tratta, questa volta, di sperare che Dio salvi - sia pure in extremis – il tempio e la nazione, e che tutto continui come prima. È il contrario: è l'uomo che si vuole lasciare modellare da Dio e accetta di essere condotto dovunque vuole il Signore.

Coloro che accettano di convertirsi possono guardare al futuro con speranza:

«Darò loro un cuore capace di conoscermi, perché io sono il Signore; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio, se ritorneranno a me con tutto il cuore». (Ger 24, 7; cf 33 , 14-16)

Può sembrare paradossale, ma è proprio negli ultimi anni di Sedecia, quando le cose volgevano al peggio, che Geremia moltiplicò i richiami alla speranza:

«Ecco, io sono il Signore, Dio di ogni essere vivente; c'è forse qualcosa di impossibile per me?» (Ger 32, 27)


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