Fragilità, la forza nella debolezza

fr. Maggiorino

«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4,7).

«”Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. [...] quando sono debole, è allora che sono forte» (2 Corinzi 12,9-10b).

“La” fragilità e “le” fragilità

Fragilità viene da frangere, ossia spezzare, ridurre in frammenti. Fragile è dunque ciò che può spezzarsi. In questo generalissimo livello, fragilità è qualcosa che di per sé non si caratterizza né come problema né come risorsa, ma, più semplicemente, come uno stato o un limite della materia e degli organismi viventi. Tuttavia, circolano diversi termini per dire la fragilità riferendosi a condizioni e situazioni problematiche. In ambito sociale, si parla di marginalità, di precarietà (o provvisorietà), di nuove povertà, di soggetti a rischio, di disagio.

Le fragilità “problema”

In realtà, se per un momento non consideriamo le fragilità che derivano da iniquità ed ingiustizie, dobbiamo riconoscere che l’uomo è “umano”, e per questo “fragile”, eppure so riamo sempre di più le nostre fragilità (anche quelle “ordinarie”) e non sappiamo più accettarne le con- seguenze, sia quando è “l’altro” ad esserne protagonista, sia quando riguardano noi stessi, quasi che in tali casi o circostanze la vita sia divenuta poco meritevole d’essere vissuta perché disumanizzata, mentre è il nostro cambia- mento di concezione del valore della dignità umana che ha in realtà disumanizzato, o meglio, impoverito ognuno.

Dunque, che ci sta accadendo? Perché le nostre vulnerabilità costituiscono tanto problema? Forse, abbiamo trasformato tanti sogni in bisogni? Cosa ci ha reso tanto più fragili in così poco tempo rispetto il passato, quasi a smarrire la fortezza (ossia la fermezza, la saldezza, la perseveranza)?

Le fragilità “risorsa”

La fragilità umana rimane una delle “grandi aree dell’esperienza personale e sociale”. La proposta è quella di guardare alle fragilità umane – soprattutto quelle che più temiamo – come risorsa, ossia come “ragione” e “motore” di un particolare impegno. Non per emarginarle o “anestetizzarle” (con le tecniche appropriate), ignorandone la dignità, nascondendone la profondità di significato o rimuovendone più che possibile la penosità. Bensì, al contrario, per approfittare, in un certo senso, della loro presente “invasività” nel nostro immaginario, per vincerne la paura ed attuarne pienamente l’accoglienza, nel segno dell’amore ad esse, della chiarezza e della concretezza. Per viverle radicalmente, con convinta adesione all’intima disposizione della Chiesa a proporsi “come comunità che ama il Cristo in coloro che Lui più ha amato” e che, lo stesso Cristo vuole alla sua sequela, sia il fragile sia il forte.

Concepire però l’accoglienza delle fragilità – a cominciare dalle proprie – come esercizio di autentica umanità (o, in altri termini, di santità) e di ringraziamento (non come equivoca via ascetica o penitenziale), non è certamente agevole, neppure per un credente. Esistono, infatti, forme di sofferenza che appaiono umanamente irrimediabili (cioè senza possibilità di riscatto), o più semplicemente prive di speranza redentrice: di esse, nessuno direbbe di poter essere lieto o d’averne bisogno. Eppure talvolta soltanto esperienze del genere permettono di scoprire che si può mostrare il volto migliore di sé proprio nella massima fragilità (propria o altrui)!

Come vivere le fragilità?

Quando si incontra una sofferenza, il primo atteggiamento che un uomo, una donna dovrebbero avere è quello di fermarsi, per ascoltare, guardare, per vedere e capire, come fece il samaritano. Potrà non toccare a noi la risposta necessaria, ma tocca sempre a noi l’ascolto, la vicinanza, il voler andare a vedere cosa possiamo fare, cioè o ridare speranza a chi la chiede. Ricordarsi sempre che l’immagine di Dio scolpita in ogni uomo è assolutamente più forte di ogni male che l’uomo possa compiere o di ogni sofferenza o peccato che la possa sfigurare.

Creaturalità e fragilità

La creaturalità, in quanto limitatezza e dipendenza, è, in un certo senso, la radice di tutte le fragilità umane; e questa condizione può dirsi voluta dal nostro Creatore, per tutti gli uomini e per ogni tempo. Perché? Forse perché soltanto chi è (in quanto creatura) “fragile” può realmente ed autenticamente percepire quei bisogni che lo spingono a mettersi in relazione con un'altra persona, di qualcuno che gli venga incontro, lo accolga, lo sostenga e lo incoraggi, lo abbia a cuore, lo ami facendogli avvertire quella pienezza che diventa come il motore per tutta la sua esistenza. E perché soltanto chi è fragile, quando sperimenta nel suo impellente bisogno l'altrui amore per sé, scopre la gioia di avere valore.

Gesù, i fragili e le fragilità

Come ha amato i fragili Gesù? E noi, a nostra volta, come possiamo amarli? Innanzitutto, le “fragilità” con cui Gesù si è incontrato appaiono in una gamma amplissima, pressoché esaustiva di quelle presenti nell'umanità sofferente (fisicamente e spiritualmente), e molto spesso gravanti su persone socialmente irrilevanti, subordinate ed emarginate o reiette. Gesù inoltre non ha soltanto curato e guarito malattie del corpo (più o meno gravi, croniche e non; addirittura, in tre casi, ha restituito alla vita dalla condizione di morte), ma ha anche incontrato situazioni d’inquietudine esistenziale e vocazionale, di malattia spirituale, di peccato; ha fatto luce in esperienze di reprensibile ipocrisia o autentica tenebra; ha visitato nelle loro case molti ultimi della società di quel tempo, restituendoli alla dignità della vita; ancora, ha sostituito la sua amicizia ad una solitudine desolante. In secondo luogo, questo incontro non è avvenuto soltanto sulla richiesta dei tanti uomini e donne che sono accorsi a conoscerlo, ma altrettanto spesso sull'iniziativa diretta di Gesù stesso, mossosi lui per primo verso un’umanità bisognosa d’insegnamento, di conforto e di cura.

Una fragilità trasformata

Come hanno reagito all'incontro con Gesù i fragili che lui ha amato? A tutti è stata data l’opportunità di una “guarigione”, o forse meglio, di un “rinnovamento”. Molti sono stati “rigenerati”. Non tutti però in quei frangenti appaiono effettivamente “guariti” (per non aver saputo o voluto accogliere l’amore di Cristo ed operare quel discernimento interiore indispensabile perché la loro vita fosse trasformata).

Certo, per coloro che – nel senso ampio cui prima s’accennava – sono stati “sanati”, l’esistenza è cambiata del tutto: non solo per la guarigione fisica (o addirittura per la resurrezione dalla morte), o per quella psichica o spirituale, ma anche e soprattutto perché la percezione diretta ed inequivocabile dell’amicizia di Gesù ha prodotto in loro una speranza che prima non v’era, un desiderio ed insieme un bisogno di ripartire da capo, o ha favorito il rifluire di un’energia vitale positiva, riaccendendone la speranza!

Nella trasformazione delle nostre fragilità risiede il segreto dell’autentica felicità, o dell’attingimento della vita eterna. Vita eterna, infatti, “non è semplicemente tempo senza ne, ma un altro piano dell’esistenza”; “non è una lunga durata, ma l’espressione di una qualità dell’esistenza” sperimentabile già nella nostra esperienza terrena; è cosa ben diversa da quella della durata cronologica con cui usiamo misurarla. Essa è, in ogni momento e ovunque, “là, dove ci riesce di stare faccia a faccia con Dio”, ossia un’esistenza “in cui tutto con fluisce nel qui e ora dell’amore” grazie all'incontro autentico e nel profondo con Dio e che, “come un grande amore ... non ci può più essere tolta da alcuna circostanza o situazione, ma è un centro indistruttibile, da cui provengono il coraggio e la gioia”.

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