IV DOMENICA DI PASQUA (Anno C)

«Io e il Padre siamo una cosa sola»

Lectio IV DOMENICA DI PASQUA (Anno C)

La IV Domenica di Pasqua, detta del Buon Pastore, nei tre anni (A, B, C) ci fa leggere stralci del capitolo 10 di Giovanni che parlano del rapporto tra Gesù-Pastore e i suoi discepoli-pecore. In questa Domenica, inoltre, si celebra la Giornata di preghiera per le vocazioni.

Il contesto in cui è inserito il nostro brano è la festa della Dedicazione, istituita da Giuda Maccabeo nel 164 a.C. in ricordo della purificazione e dedicazione del tempio, profanato da Antioco Epifane IV.

La domanda posta a Gesù se fosse il Cristo nel contesto liturgico della Dedicazione (Fino a quando ci terrai nell'incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente v. 24), festa contrassegnata da forte tensione per l’attesa della venuta del Messia, assume una particolare pregnanza teologica. Gesù rispose riferendosi ai miracoli inauditi da lui operati (Ve l'ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore vv. 25-27) e riprendendo il tema del buon Pastore, al quale il Padre aveva affidato la custodia delle pecore. Infine, rivelò la sua identità profonda con il Padre.

Prepariamo il cuore ad accogliere il dono della Parola, attraverso la preghiera di Colletta:

O Dio, fonte della gioia e della pace,
che hai affidato al potere regale del tuo Figlio
le sorti degli uomini e dei popoli,
sostienici con la forza del tuo Spirito,
perché non ci separiamo mai dal nostro pastore
che ci guida alle sorgenti della vita. 

Siamo chiamati ad ascoltare la voce del Pastore per avere quella vita eterna che solo Lui può donare, perché uguale al Padre.

Le pecore ascoltano la voce del pastore e il pastore le conosce; le pecore seguono il pastore e il pastore dà la vita per loro; le pecore non periranno mai e nessuno le strapperà dalla mano del pastore. I falsi pastori non riusciranno a disperdere il gregge. È una fiducia che poggia sull’amore del Padre, sulla sua potenza che non teme confronti. Nessuno può strappare al Figlio le sue pecore, perché il Figlio e il Padre sono una cosa sola. L’unità del Figlio con il Padre è unità d’amore e di ubbidienza.

I giudei che ascoltano Gesù fanno fatica a credere a quanto lui gli sta raccontando, in quanto non appartengono al suo ovile, perché non ascoltano la sua voce. Non è che non abbiano avuto sufficienti rivelazioni, quello che manca loro è la fede. Anzi essi confidano soltanto nella Legge e non riescono a fare il passaggio verso la persona del Cristo. Infatti per credere a Gesù, bisogna essergli uniti interiormente; essere dall’alto (Voi siete di quaggiù, io sono di lassù; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo: 8,23), da Dio (Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: 8,47), dalla verità (Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce: 18,37), essere delle sue pecore (le mie pecore conoscono me: 10,14). Essere pecore del Cristo è frutto di una libera scelta, da rinnovare quotidianamente, infatti l’incredulità dei giudei non dimostra che Gesù non è il pastore delle pecore, ma che quelle pecore non erano sue, perché non credono nel pastore mandato da Dio.

Fede

La FEDE, che Gesù chiede fin dall’inizio della sua attività e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede. Gesù la domanda in modo particolare in occasione dei miracoli, che sono segni della sua missione e del suo regno; così egli non può compierne se non trova la fede, che deve dare ad essi il loro vero significato. Esigendo un sacrificio dello spirito e di tutto l’essere, la fede è un atto difficile di umiltà, che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele o lo fanno solo per metà. I discepoli stessi sono lenti a credere, anche dopo la risurrezione. Anche la fede più sincera del loro capo, la roccia, sarà scossa dallo scandalo della passione, ma poi trionferà. Quando è forte, la fede opera meraviglie, ottiene tutto, in particolare la remissione dei peccati e la salvezza, di cui è la condizione indispensabile.

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.

Si riprendono temi ed affermazioni fatte precedentemente nei vv. 3-4 (le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce) e 14 (Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me). Gesù insiste sul rapporto che esiste tra il pastore e le sue pecore, le quali presteranno ascolto unicamente alla sua voce. Le pecore sono sue e sono legate a lui da un fermo rapporto di fiducia: ascoltano la sua voce, egli le conosce (è in confidenza ed in unione con essi), esse lo seguono, egli dà loro la vita eterna (cfr. 3,15; 4,14) e li protegge. Quello che importa è che le pecore seguano obbedienti il loro pastore e non un altro. Le espressioni seguire (sequela nella fede) e conoscere la sua voce (conoscere il Rivelatore e comprendere la sua rivelazione) esprimono senza difficoltà il loro significato profondo ai credenti lettori del vangelo.

Ascolto

L’ASCOLTO è di fondamentale importanza nella storia del popolo d’Israele (Dt 6,4), dove tutto è imperniato sulla parola udita. L’udire prevale sul vedere e in questa prevalenza si esprime l’essenza più profonda della religione biblica. Questa infatti è religione della parola perché è religione dell’azione, che significa obbedienza alla parola, ovvero adesione fiduciosa alla volontà di Dio. L’ascolto effettivo ed interiore si distingue dalla semplice percezione uditiva perché accende la fede e induce all’azione.

Ma, come ci racconta l’evangelista Giovanni, “il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (1,14), quindi la Parola è Gesù stesso, è lui che bisogna ascoltare, in quanto solo lui ci comunica le parole di Dio perché è da Dio. Tutto passa dall’ascolto, infatti Maria prima di concepire nel grembo ha concepito dell’orecchio, tramite l’ascolto della parola dell’angelo e la sua incondizionata adesione di fede. E Maria di Magdala ha riconosciuto il Risorto non attraverso la vista ma mediante l’udito. Allo stesso modo noi possiamo incontrare il Signore e scegliere di credere in lui, solo mediante l’ascolto della sua Parola.

Il pastore con le sue pecore è in un rapporto di reciproca conoscenza ed amore. Egli li conosce, come il possessore del gregge conosce le sue pecore: è un rapporto di amichevole confidenza. Esse conoscono la voce del loro pastore; la confidenza è reciproca (v. 14), e al richiamo del pastore corrisponde l’ascolto delle pecore (v. 27). Il conoscere di Gesù precede non senza motivo il conoscere dei suoi, come pure il conoscere del Padre precede il conoscere del Figlio. Così nel concetto si va al di là dell’immagine del pastore, che ha confidenza con le sue pecore.

Conoscere

Nella tradizione biblica il CONOSCERE deriva non da un processo puramente intellettuale, ma da una esperienza, da una presenza; essa si effonde necessariamente in amore. Infatti secondo l’A.T. il conoscere implica sempre un riconoscere e contiene una dimensione affettiva, o meglio volitiva; tant’è vero che l’ignoranza non è soltanto errore, ma anche colpa. Perciò nell’uso biblico il conoscere tanto di Dio quanto degli uomini, inteso come comprensione del valore e delle esigenze dell’altro, può equivalere a prendersi cura di.

Un’importanza particolare riveste il verbo conoscere nel vangelo di Giovanni, dove esso definisce il rapporto con Dio e con Gesù inteso come una comunione personalissima in cui ogni membro è determinato dall’altro nel suo modo di essere. Poiché Dio e il Figlio sono e hanno la vita (5,26), conoscere Dio e Gesù Cristo significa possedere la vita eterna (17,3) e per questo è sufficiente che venga mostrato il Padre (14,8). La conoscenza che lega Gesù e i suoi trova la sua sorgente e la sua pienezza nell’amore che lega il Figlio e il Padre. Da tutto ciò risulta chiaramente che il conoscere rappresenta il dato supremo e autentico dell’esistenza; ed è pure evidente che questa realtà suprema si risolve in ultima analisi nell’amore. Il conoscere non è quindi un conoscere speculativo o teorico, ma neppure un’illuminazione mistica che trascenda la sfera empirico-pratica; esso si esplica invece proprio nell’agire storicamente determinato.

Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.

Gesù può donare la vita eterna perché questo potere gli è stato concesso dal Padre suo (Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato: 17,2). Inoltre nessuno di coloro che si affida al buon pastore andrà in perdizione (Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna: 3,16). Infine nessuna forza terrena ha la capacità di soppiantare la potenza del pastore messianico e perciò i credenti godono una perfetta sicurezza, perché egli è il pastore autentico al quale le pecore sono state affidate dal Padre (E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno: 6,39). Colui che si affida a Gesù con la fede trova in lui quella sicurezza assoluta che non trova mai in alcuna sicurezza o protezione umana. In lui infatti è presente il potere divino. Come non lo mette in agitazione l’esperienza dell’incredulità dei giudei, così non lo preoccupa il destino delle sue pecore.

C’è anche un chiaro riferimento antitetico al ladro, che viene per rubare, uccidere e distruggere (10,10) e al lupo, che rapisce le pecore per l’incuria del mercenario (10,12-13).

Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.

È impossibile che Gesù perda le pecore che gli sono state date dal Padre perché l’onnipotenza del Padre è la garanzia del dono. Il potere protettivo di Gesù è quello del Padre, che è più grande di tutti coloro che minacciano il gregge di Gesù. Il ricorso al Padre, che anche secondo altri passi è il vero padrone delle pecore e le ha date, cioè affidate a Gesù, affinché compia in esse la sua opera di salvifica (6,37.39; 17,6.9 s.), dà un peso maggiore all’assicurazione di Gesù. Nelle discussioni con i giudei senza fede, Gesù si richiama continuamente al principio che egli agisce secondo la volontà e per l’autorità del Padre suo (cfr. 6,37-40; 5,19-20; 8,16-19; 8,26 s.; 8,54 s.).

In questi due vv. 28-29 si riflette la serena esperienza della comunità giovannea che si sentiva il gregge protetto dal Figlio di Dio e che nessuno e nulla poteva rapire: né le persecuzioni esterne né le eresie interne.


Io e il Padre siamo una cosa sola.


Dopo aver energicamente garantito la cura delle pecore che lo seguono e la possente difesa del Padre, Gesù mette in risalto la sua unità con il Padre. La formulazione è più energica che nei passi precedenti, dove Gesù parla della sua cooperazione col Padre (5,17.19), della sua concordanza con il Padre (cfr. 5,30; 8,16.18), del suo operare secondo la volontà e la direttiva del Padre (6,38; 8,26.28; 10,18). Tutto questo è implicito, ma nella guida e nella protezione delle pecore la concordia diventa unità, perché le pecore sono proprietà comune del Padre e del Figlio (cfr. 10,14; 17,21-23.26). Questa unità del Padre e del Figlio diventa nella preghiera sacerdotale figura e modello dell’unità a cui devono giungere anche i credenti. Gesù può dare una protezione assoluta ai suoi perché condivide senza limiti la potenza del Padre, in quanto sono una cosa quanto al pensiero, la volontà e l’azione. Gesù non afferma semplicemente che egli e il Padre sono d’accordo, ma che sono una cosa sola.

Con la sua imprecisione, che non è casuale, questa parola suggerisce un’unità ancor più profonda (cfr. 17,11: Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi e 17,22: E la gloria che tu hai dato a me, io l'ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa). E i giudei colgono perfettamente questo significato, come risulta chiaro dai versetti successivi, infatti raccolgono pietre (cfr. 8,59) per lapidarlo, senza processo né sentenza.

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