“Venite, saliamo al monte del Signore,
e nella casa del nostro Dio e Signore,
e contempliamo la gloria della Trasfigurazione,
gloria del Figlio unigenito del Padre.
Dalla luce assorbiamo abbondante luce
E, sollevati dallo Spirito Santissimo,
inneggiamo per i secoli alla Trinità consustanziale”.
(Dalla liturgia Bizantina)
L’iconografia della Trasfigurazione riproduce il racconto narrato nei Vangeli sinottici, (Mt 17,1-9; Mc 9,2-9; Lc 9,28-36), che sostanzialmente concorda nell’esposizione degli avvenimenti. Gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni salgono con Gesù sul monte, qui sono colpiti dalle vesti bianchissime e dal volto di Gesù trasfigurato, dalla presenza di Mosè e di Elia, dalla voce misteriosa, che da una nube dichiara “Questo è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!”, dopo l’esperienza c’è la discesa dal monte.
Nel Concilio di Calcedonia, del 451, i padri conciliari avevano insegnato che la Chiesa professa la fede nell’unigenito Cristo Signore, “da riconoscersi in due nature, senza confusione, immutabili, indivise, inseparabili, […] e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi; egli non è diviso o separato in due persone, ma è un unico e medesimo figlio, unigenito, Dio, Verbo e Signore Gesù Cristo”.
Nella Trasfigurazione, Gesù ‘mostra’, se così si può dire, che nella sua persona sono presenti e la natura umana e la natura divina. Si cominciò, così ad esprimere la verità dogmatica delle due nature in Gesù Cristo anche con la scena della Trasfigurazione, nella quale Gesù si rese visibile a Pietro, Giacomo e Giovanni nello splendore della sua forma divina.
Nella chiesa accaddero anche tensioni dovute a diverse correnti teologiche, che in alcuni casi la divisero, ma che in ogni modo la fecero progredire nella riflessione teologica, nell’approfondimento e nella comprensione della propria fede.
In Oriente ci furono lotte tra Calcedoniani e non Calcedoniani, cioè tra quelli che accolsero i pronunciamenti del Concilio di Calcedonia, del 451, e chi no.
Con l’avvento dell’imperatore Giustiniano nel 527, ci fu una riunificazione dell’Impero. Egli si dichiarò garante della fede dei Concili Ecumenici. Giustiniano fu un grande organizzatore dell’amministrazione dell’Impero, ma soprattutto, per quanto ci riguarda, fu un grande promotore dell’arte e dell’architettura.
Le prime due grandi raffigurazioni della Trasfigurazione sono state eseguite durante il regno di Giustiniano, intorno alla metà del vi secolo, nella chiesa di Santa Caterina sul Sinai e nella chiesa di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna. Queste due monumentali raffigurazioni a mosaico sono molto diverse l’una dall’altra e, anche geograficamente, si trovano su versanti opposti dell’Impero Bizantino.
La Trasfigurazione nell’abside della chiesa sul Sinai è una scena grandiosa e imponente. Il Cristo è al centro di una mandorla, vestito di una tunica argentea con larghe fasce dorate. Non è raffigurato il monte Tabor, perché non interessa tanto il luogo storico ma quello intelligibile. Mosè ed Elia si trovano ai lati di Gesù e sono investiti dalla luce emanata. Gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni sono a terra, ma tutti rivolti verso il Cristo, come immortalati nell’attimo della contemplazione.
Nell’abside della chiesa di Sant’Apollinare in Classe, la Trasfigurazione è rappresentata in modo simbolico, non come una teofania storica, ma come una teofania escatologica.
Nel catino dell’abside è visibile, dall’alto, la mano di Dio che indica la Croce; Mosè ed Elia sembrano emergere a mezzo busto da un mare di nuvole; Pietro, Giacomo e Giovanni sono rappresentati da tre candide pecore, che stando ritte su di un prato verde, alzano lo sguardo verso la Croce, verso Gesù. La grande Croce, gemmata e dorata, che si staglia su di un cielo trapuntato di stelle, ha al centro il volto di Cristo.
La Trasfigurazione di Sant’Apollinare in Classe è una rappresentazione complessa, e assume qui la forma di un’allegoria. La scena non si svolge su di un monte, ma su di un prato verde, fiorito e ricco di vegetazione. Da evento storico la Trasfigurazione diventa immagine della Chiesa, luogo in cui Dio continuamente si manifesta.
La liturgia diventa sempre più una teofania che prolunga nel tempo l’Incarnazione del Verbo, seguita dalla Morte e dalla Risurrezione. La chiesa, come edificio decorato è segno di quest’eterna presenza del Verbo in mezzo ai fedeli. Scopo dell’iconografia bizantina non è solo di raffigurare Cristo, la Madre di Dio e i Santi, ma da questo momento cercherà di coinvolgere lo spettatore e renderlo partecipe del mistero.
Diversi particolari della scena storica torneranno ad essere raffigurati, come il monte, la salita e la discesa da esso, tuttavia acquisterà sempre maggior importanza l’idea di rappresentare il mistero, e non solo l’evento storico.
Un antico manuale di pittura del Monte Athos, attribuito a Dionigi da Furna, prescrive che il soggetto della Trasfigurazione era la prima icona che un iconografo doveva dipingere dopo essersi esercitato sull’arte pittorica. L’iconografo doveva chiedere e ricevere la benedizione dal sacerdote, il quale recitava una strofa di uno degli inni della festa della Trasfigurazione: “Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, facendo vedere ai tuoi discepoli la tua gloria, per quanto lo potevano. Fa risplendere anche su noi peccatori la tua eterna luce, per l’intercessione della Madre-di-Dio, o datore di luce: gloria a te”. Il motivo di questa prassi è da ricercare nel fatto che l’icona è una manifestazione della gloria divina. Il fondo d’oro in cui sono immersi i personaggi, o la scena raffigurata, indica anche la gloria eterna, immutabile. Il personaggio raffigurato è sempre trasfigurato e si può dire che in ogni icona si riproduce il mistero della Trasfigurazione.
Per questo motivo l’icona della Trasfigurazione può essere considerata la “madre” di tutte le icone, nel senso che in ogni icona deve riflettersi la stessa luce che brillò sul Tabor. Ogni icona, specialmente quella di Cristo, deve far intravedere l’invisibile attraverso l’immagine visibile, proprio come sul Tabor la divinità di Cristo fu intravista dai tre Apostoli attraverso il velo della sua carne.
La contemplazione della Trasfigurazione insegna che l’icona va dipinta non tanto con i colori, ma soprattutto con la luce del Tabor, con la luce della Trasfigurazione. È da notare come nelle icone la sorgente di luce non è mai esterna, ma essa proviene dall’interno del soggetto raffigurato.
In alcune icone, non nella nostra, compare la scena della salita e della discesa dal monte. Esse sono racchiuse in una sorta di grotta entro cui si vedono i tre Apostoli preceduti da Gesù. Gesù prende con sé i tre discepoli per introdurli nel mistero della sua persona, per rivelare loro la luce, e per questo li guida verso l’alto, verso il monte. Il monte è luogo della Teofania, luogo in cui Dio già nell’Antico Testamento si era rivelato a Mosè e ad Elia, ed essendo alto, verticale e vicino al cielo, diventa simbolo della vicinanza e della presenza di Dio. Il monte diventa simbolo della conoscenza ineffabile di Dio, per questo è scosceso e difficile, e può essere scalato solo sotto la guida di Cristo.
Nell’icona la montagna ha tre cime, oppure è composta da tre monti: il Carmelo, l’Oreb e il Tabor.
Il Carmelo e l’Oreb sono particolarmente splendenti e sembrano accostarsi al monte centrale, il Tabor, che invece sembra avanzare verso lo spettatore. Il monte Tabor è verde, il colore del regno vegetale, della primavera e quindi del rinnovamento, per questo simboleggia la crescita e la vitalità. Sul monte Tabor c’è vita perché c’è movimento, ma vale anche il contrario: c’è movimento perché c’è vita, infatti osservando i lembi del mantello di Mosè e di Elia, notiamo come questi cadono pesantemente, a differenza del bianco mantello di Gesù che è svolazzante. Il movimento è reso anche con la precipitosa caduta degli Apostoli che provoca lo sventolare del mantello di Pietro a destra, la perdita di un sandalo a Giovanni nel centro e la caduta all’indietro di Giacomo sulla destra. Nel vangelo leggiamo riferito a Cristo: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4) e Gesù dice di sé “Io sono la via, la verità, e la vita” (Gv 14,6a); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25a). Ora, se guardiamo il monte Tabor, per la sua forma è riconducibile ad un gran triangolo, al cui vertice c’è Cristo, e da cui sembra sgorgare il verde, la vita, come una cascata che investe e colora tutto il monte centrale.
Il Cristo trasfigurato
Il motivo dominante dell’iconografia della Trasfigurazione è la luce, ma una luce che non ha altra fonte se non il Cristo trasfigurato. Nell’icona non ci sono ombre e tutti i particolari, Mosè, Elia, gli Apostoli, il monte, sono illuminati da questa sorgente di luce.
Guardando l’icona vediamo nella metà superiore, al centro sfolgorante di luce, il Cristo. Leggiamo nei vangeli che Gesù “mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante” (Lc 9,29), che “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (Mc 9,3), e “il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,2).
Le vesti di Cristo sono bianche come nell’icona della Resurrezione, il bianco è il colore che rappresenta direttamente il mondo divino. Per il suo effetto ottico, per la sua assenza totale di colorazione, il bianco appare vicino alla luce stessa. Il suo irradiamento trasmette la purezza e la calma più di ogni altro colore; nello stesso tempo contiene un dinamismo che colpisce l’occhio come i raggi del sole. Perciò la sua azione è quella della luce, la cui essenza è di trasmettere e di avanzare nello spazio. In una pittura il bianco domina l’immagine con il suo irradiamento, sembra fare un salto in avanti con più forza di tutti gli altri colori.
Questo effetto è presente nella nostra icona: le vesti di Cristo sono di un bianco abbagliante, al punto che la sua figura sembra staccarsi dal fondo scuro della mandorla e avanzare verso lo spettatore. È la rappresentazione fedele del racconto degli evangelisti. Cristo emerge da una mandorla di luce che gradualmente, diventa via via più luminosa verso l’esterno. La mandorla simboleggia la luce, il mistero di Dio che è nascosto, ma che si rivela progressivamente. Essa indica anche il cammino dell’uomo nella conoscenza di Dio, un cammino che parte dalla luce e va verso la “tenebra”. Questa conoscenza è dapprima luce per quelli che la ricevono, ma più si progredisce e ci si avvicina alla contemplazione, più ci si accorge che la natura divina è invisibile
La figura di Cristo è molto allungata, con la destra benedice e con la sinistra regge il rotolo delle Sacre Scritture che parlano di lui. Intorno al capo c’è un nimbo dorato con la croce e la scritta greca o ôv (colui che è). È questo un elemento che non manca mai nell’iconografia di Cristo.
Tutta l’icona è dominata dal movimento della luce che si concentra su Cristo e da lì si irradia e coinvolge Mosè ed Elia, che risultano incurvati dalla luce stessa. La luce divina raggiunge i tre Apostoli e li costringe a ripararsi gli occhi con le mani. La gloria del Cristo trasfigurato raggiunge e coinvolge anche il monte e la vegetazione, perciò tutto nell’icona viene come permeato di divina presenza e sembra acquistare nuova vitalità.
Il vertice della montagna tocca i piedi di Cristo diventando così punto di unione tra la terra e il cielo, mentre Gesù diviene luogo d’incontro tra Dio e l’uomo.
Mosè ed Elia
“Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui” (Mt 17,3).
Mosè è la figura di destra e sorregge il libro della legge. Il suo aspetto, con la barba e i capelli corti, è giovanile, infatti di lui si legge che alla sua morte nonostante i suoi centovent’anni “gli occhi non gli si erano spenti e il vigore non gli era venuto meno” (Dt 34,7). Elia è la figura di sinistra, ha capelli lunghi e barba lunga, con la mano destra indica Cristo. Elia rappresenta tutti i profeti e Mosè rappresenta la legge, che trova il suo compimento in Gesù Cristo.
La legge nuova donata da Gesù porta a compimento la legge di Mosè. È Gesù stesso che dice “non pensiate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17), e Giovanni nel suo prologo dice che “la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo” (Gv 1,17).
Elia indossa un mantello verde. Il verde, come abbiamo visto, è un colore che simboleggia la crescita e la vitalità. È anche simbolo di rigenerazione spirituale e dello Spirito che dà la vita. Il verde in iconografia è usato spesso per le vesti dei profeti, in quanto sono uomini investiti dello Spirito.
Il mantello di Mosè è di un colore rosso scuro-porpora. La porpora nella sua tonalità pura era il colore dei più alti dignitari e il colore degli abiti dei re nella bibbia (Dn 5,7.16.29). La porpora è quindi simbolo di potenza, e anche gli imperatori di Bisanzio ne facevano largo uso, tanto che la produzione di stoffe color porpora era monopolio della corte imperiale. Nell’iconografia la porpora ha perso questo aspetto minaccioso di potenza umana, e raramente appare nella tonalità pura. La sua tonalità si avvicina di più al rosso, e indica che la potenza e il potere non derivano dalle forze dell’uomo, ma sono dati da Dio. Per questo il colore delle vesti dei re e dei principi è rosso scuro. Il manto rosso scuro di Mosè indica il suo essere stato messo a capo e guida del popolo, un potere conferitogli da Dio stesso.
Gli Apostoli
La parte inferiore dell’icona è occupata dai tre apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, colti dall’iconografo nel momento in cui cadono dal monte “atterriti e atterrati” dalla visione sfolgorante.
Pietro è in ginocchio e alzando una mano verso il Cristo contempla la visione e sembra esprimere il suo stupore: “Signore è bello per noi restare qui” (Mt 17,4). Pietro prima degli avvenimenti del Tabor aveva espresso la sua fede in Gesù dicendo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16), ora sul Tabor può contemplare chiaramente Colui che era stato oggetto della sua professione di fede e udire la voce del Padre che, quasi a confermare il tutto, dice: “questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo” (Mt 17,5). Lo straordinario evento della Trasfigurazione è ricordato dallo stesso Pietro quando scrive: “questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte” (2Pt 1,18). Il suo mantello è giallo, un colore che richiama il sole e la trascendenza. Anche i monti su cui poggiano Mosè ed Elia sono gialli, perché trasfigurati dalle teofanie.
Gli altri due Apostoli, Giacomo e Giovanni, non sostengono lo splendore della visione, sono scaraventati giù dal monte e cercano di ripararsi il volto con le mani.
Giovanni e Giacomo indossano un mantello rosso; quello di Giacomo è di una tonalità più scura tendente al viola. Fra i colori, il rosso è quello più vivo perché sembra avanzare verso lo spettatore e si impone sugli altri colori. Per questo suo dinamismo, che lo assimila alla luce, il rosso, come l’oro e il bianco, può essere usato nel fondo dell’icona e nelle aureole.
Nell’icona Giovanni, l’Apostolo di mezzo, sembra staccarsi dal fondo e farsi vicino allo spettatore. Il colore rosso è simbolo dell’amore che si fa dono, del sacrificio e dell’altruismo, ed evoca il sangue che è vita. Il mantello di Giovanni è rosso vivo per il suo particolare rapporto d’amore con Gesù e che gli dà il coraggio e la forza di stare ai piedi della croce con Maria (Gv 19,25-27).
Il mantello di Giacomo è rosso scuro, tendente al viola, quasi a significare che egli sarà il primo tra i Dodici a versare il suo sangue per Cristo.
Lo sfondo
Lo sfondo dell’icona è la superficie davanti alla quale succede tutto, esso deve spingere tutte le figure verso l’esterno, fino allo spettatore. Lo sfondo è luminoso, ma non trasparente e spesso è d’oro. L’oro è il riflesso puro della luce, è splendore, e mentre gli altri colori prendono vita dalla luce, l’oro ha un irraggiamento proprio. È per questo che in iconografia è simbolo della luce divina. Nell’icona sono le figure che avanzano verso lo spettatore, ed egli non può spingere il suo sguardo oltre un certo limite poiché incontra il fondo dorato che gli impedisce di guardare oltre. L’oro è qualcosa di luminoso che ci parla della gloria di Dio, ci parla della luce, ma nello stesso tempo data la sua impenetrabilità rivela l’inaccessibilità di Dio. Di Dio possiamo conoscere solo ciò che ci viene rivelato, più in là non possiamo spingerci. Il fondo impenetrabile è questo piano da cui le immagini emergono e si fanno conoscere, cioè si rivelano a chi le osserva.
“Tu, che sul monte Tabor ti sei trasfigurato
nella gloria, Cristo Dio,
e hai mostrato ai tuoi discepoli
la gloria della tua divinità,
illumina anche noi
con la luce della tua conoscenza
e guidaci nella via dei tuoi comandamenti,
Tu, che solo sei Buono
e Amico degli uomini”.
(Dalla liturgia Bizantina)
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