Convegno annuale Caritas Pavia

Francesco e la Povertà

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La Povertà di Cristo

Tutti coloro che scelgono di mettersi a servizio dei poveri devono aver chiaro cosa si intente per povertà.

L'uomo da sempre desidera essere ricco, questo diventa il problema della sua vita, non conoscendo la sua vera identità di essere immagine e somiglianza di Dio. Questo rappresenta un dono e un compito, una grazia e un impegno, perché ogni uomo è chiamato – attraverso il suo libero arbitrio – a diventare sempre di più simile a Colui che lo creato per amore.

L’inganno del serpente antico consistette nell’istillare dentro il cuore dell'uomo il desiderio di essere come Dio: grande, potente, onnipresente e onnisciente. Questa è la gloria che l'uomo proietta in Dio, gloria desiderata per sé e a scapito degli altri.

Dio Padre, povero e paziente, nel piccolo corpo fragile del bambino Gesù – che giaceva nella mangiatoia tra il bue e l'asinello – e nel corpo ferito del Cristo crocifisso, ha manifestato la sua vera gloria.

L'infinito si nasconde nel finito, l'immortale riveste i poveri panni della nostra fragile umanità, l'Impassibile patisce per amore del passibile.

Contemplando Gesù di Nazareth, che si mostra un uomo povero in mezzo a uomini poveri, siamo chiamati a rivedere radicalmente la nostra idea di povertà:

Conoscete infatti la grazia del Signore nostro Gesù Cristo: da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.

(2 Cor 8,9)

In questa frase viene espresso il profondo significato storico-salvifico della povertà. Se la povertà di Cristo diventa la nostra povertà, se noi portiamo in noi l’essere di povero di Cristo, continuandone la presenza nella storia, allora saremo resi partecipi anche della sua pienezza.

Gesù ha combattuto ogni forma di povertà assumendola in sé e facendola diventare un mezzo privilegiato per accedere al Padre:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio
l'essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall'aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.

(Fil 2,5-8)

“Quello che Cristo ha assunto, lo ha redento”: questa affermazione (circolante nei primi secoli) ha una profonda valenza esistenziale. Il noto teologo Karl Rahner commentava:

Tutto quello che Egli ha assunto è stato redento, perché in tal modo esso è diventato vita e destino di Dio stesso. Egli ha assunto la morte; dunque la morte deve essere qualche cosa di più di un tramonto nel vuoto assurdo. Egli ha assunto di essere abbandonato; dunque la tetra solitudine deve racchiudere in sé anche la promessa di una felice vicinanza divina. Egli ha assunto la mancanza di successo. Dunque la sconfitta può essere una vittoria. Egli ha assunto di essere abbandonato da Dio. Dunque Dio è vicino anche quando noi pensiamo di essere da Lui abbandonati. Egli ha assunto, dunque tutto è redento.

Questa è una buona notizia per tutti noi, che facciamo fatica a stare nel limite, ad abitare la povertà che ci definisce, dimentichi che la nostra povertà è il canale privilegiato per attingere alla sovrabbondante ricchezza di Dio.

Inoltre facciamo fatica a stare davanti alla povertà degli altri, perché siamo sempre rimandati alla nostra esistenziale e costitutiva povertà, che invece di rappresentare un’opportunità per creare relazioni libere e liberanti, diventa un ostacolo fastidioso e insopportabile.

Iniziando il discorso inaugurale con la beatitudine dei poveri, Gesù vuole fare riconoscere in essi gli eredi privilegiati del regno che annuncia:

Beati i poveri in spirito, 
perché di essi è il regno dei cieli.

(Mt 5,3)

Gesù proclama beati i poveri, perché oggetto della predilezione di Dio. Dietro le beatitudini sta la figura di Gesù, che le ha vissute in pienezza.

La povertà in spirito è la disposizione interiore di chi pone tutte le sue sicurezze in Dio solo.

Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.

(Lc 6,20)

Luca dà particolare rilievo alla dimensione sociale delle Beatitudini, ma il clima spirituale è identico a quello di Matteo.

Il Messia dei poveri è egli stesso un povero. Betlemme, Nazaret, la vita pubblica, la croce, sono altrettante forme diverse della povertà, abbracciata e consacrata da Gesù, fino allo spogliamento totale. Ed egli può invitare a venire a lui, perché è “mite e umile di cuore” (Mt 11,29). Anche nel suo trionfo della domenica delle palme egli rimane il re modesto annunziato da Zaccaria (9,9). E soprattutto, nella sua passione, egli assume la sofferenza e riprende la preghiera di tutti i poveri di Jahvè (Sal 21; Mt 27,46).

La Povertà di Francesco

Chi pensa a san Francesco d’Assisi, pensa spontaneamente al suo amore per la povertà.

Egli incontrò la povertà, perché aveva udito le parole del Signore Gesù che inviava i suoi discepoli in missione – poveri di cose ma ricchi di virtù – non perché l’aveva veduta negli altri.

La povertà non è primariamente un esercizio ascetico, ma una conseguenza dell’unione con Cristo, infatti Francesco si sentì chiamato alla povertà dalla povertà di Gesù Cristo.

Mentre i gruppi religiosi che precedettero Francesco, vedevano l’esemplare della loro vita povera nella vita degli Apostoli e della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme, il poverello di Assisi aveva come ideale predominante la vita di Gesù Cristo, nella quale, lo aveva particolarmente impressionato la povertà.

Francesco non sceglie tanto di servire i poveri ma di farsi povero con i poveri. L'incontro con il lebbroso è indicativo ed esaustivo di questa scelta di fondo che Francesco compie, per pura misericordia di Dio:

Il Signore dette a me, frate Francesco, di incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo.

(Testamento 1-3: FF 110)

Il lebbroso per Francesco è il povero per eccellenza. È Dio che gli concede la grazia di vivere un’esperienza di vera e autentica conversione, riuscendo a fare quello che prima aborriva. Questa esperienza di stare a contatto con questi reietti della società gli procurò dolcezza di animo e di corpo: il modo di sentire di Francesco cambia drasticamente e radicalmente.

Il vero miracolo è stato che il Santo si ritrova profondamente cambiato: gradualmente muore il figlio di Pietro di Bernardone, ambizioso mercante che voleva diventare cavaliere, e nasce frate Francesco d’Assisi, fratello e servo di tutti.

Non sappiamo se e come è cambiata la condizione del lebbroso – certamente la vicinanza del poverello d’Assisi gli avrà fatto bene, sotto diversi aspetti della sua esistenza – ma quella di Francesco sicuramente sì, considerato che nel Testamento la prima cosa che scrive è proprio l’incontro con i lebbrosi, evento considerato determinante nel suo cammino di conversione al Signore Gesù.

Ma il Santo non rimane tutta la vita a servire i lebbrosi, ma passa la maggior parte del suo tempo in totale solitudine perché, spoglio di ogni tipo di ricchezza, possa stare con il Cristo povero, quindi per annunciare agli altri i frutti del suo stare solo con il Solo.

Certamente dicendo questo non si vuole escludere il servizio ai poveri ma, per chi è chiamato a questo prezioso ministero, occorre che viva in se stesso quella povertà radicale che Cristo ha abbracciato, manifestando la povertà di Dio.

Il Padre è povero perché dona tutto se stesso al Figlio e il Figlio è anch'esso povero perché dona tutto se stesso al Padre.

In questo meraviglioso scambio d'amore povero viene inserita tutta l'Umanità, chiamata personalmente dal Figlio ad abbracciare questa divina povertà.

Il cammino che va dall'incontro con il crocifisso di San Damiano al Serafino crocifisso della Verna, è tutto costellato da una continua e appassionata ricerca di conformazione a quel Cristo, povero e crocifisso, che era diventato il senso di tutta la sua vita:

Mentre passava vicino alla chiesa di San Damiano, gli fu detto in spirito di entrarvi a pregare. Andatoci, prese a fare orazione fervidamente davanti a una immagine del Crocifisso, che gli parlò con pietà e benevolenza: «Francesco, non vedi che la mia casa sta crollando? Va’ dunque e restaurala per me». Tremante e stupefatto, rispose: «Lo farò volentieri, Signore».

Da quel momento il suo cuore fu ferito e si struggeva al ricordo della passione del Signore. Finché visse portò sempre nel suo cuore le stimmate del Signore Gesù, come si manifestò chiaramente più tardi quando quelle stimmate si riprodussero nel suo corpo, mirabilmente impresse e fatte conoscere in tutta evidenza.

(Leggenda dei tre Compagni 13-14: FF 1411-1412)

Il Santo nel suo cammino di continua discesa che ha caratterizzato tutta la sua vita, non ha mai staccato lo sguardo dal Cristo, povero e crocifisso.

Per Francesco, così come prima lo era stato per Gesù, la povertà non è subita ma scelta per amore; lo stesso possiamo dire per i suoi primi compagni, come dimostra questo racconto, tratto dalla Leggenda dei tre Compagni:

Un giorno due frati giunsero a Firenze.

La notte dormirono assai poco fino all’ora di mattutino, presso il forno, scaldati dal solo amore divino e protetti dalla coperta di Madonna Povertà. Allora si levarono per andare alla chiesa più vicina, per partecipare alla liturgia del mattino.

Un uomo di nome Guido passò a distribuire l’elemosina ai poveri che si trovavano in quella chiesa.

Arrivato che fu presso i frati e facendo l’atto di dare a ciascuno del denaro, come aveva fatto con gli altri, quelli rifiutarono e non lo vollero ricevere. Allora disse loro: «Ma perché voi, pur essendo poveri, non prendete il denaro come gli altri?». Rispose frate Bernardo: «È vero che siamo poveri, ma per noi la povertà non è un peso, come per gli altri indigenti, poiché ci siamo fatti poveri di nostra libera scelta, per grazia di Dio, seguendo il suo consiglio». Stupì quell’uomo e, interrogatili se avessero avuto dei beni, sentì da loro che effettivamente avevano posseduto grandi ricchezze, ma per amore di Dio avevano distribuito ogni cosa ai poveri.

(Leggenda dei tre Compagni 38-39: FF 1442-1443)

Nella sua volontà decisa di servire i poveri, Francesco vedeva in essi il Cristo povero.

Questo servizio d'amore è possibile anche per noi, se coltiviamo personalmente e quotidianamente una relazione con Gesù, attraverso l’ascolto amoroso del Vangelo.

Questo esercizio quotidiano di ascolto della Parola ci permetterà di annunciare la Buona Notizia ai poveri in opere e parole.

Francesco viveva tutto questo, infatti come ci dice il biografo Tommaso da Celano:

Era davvero molto occupato con Gesù. Gesù portava sempre nel cuore, Gesù sulle labbra, Gesù nelle orecchie, Gesù negli occhi, Gesù nelle mani, Gesù in tutte le altre membra… Anzi, trovandosi molte volte in viaggio e meditando o cantando Gesù, scordava di essere in viaggio e si fermava a invitare tutte le creature alla lode di Gesù. Proprio perché portava e conservava sempre nel cuore con mirabile amore Gesù Cristo, e questo crocifisso, fu insignito gloriosamente più di ogni altro all’immagine di lui.

(Vita Prima di Tommaso da Celano 115: FF 522)

Quello che a noi può sembrare assurdo o irraggiungibile viene da un quotidiano cammino di sequela del Cristo, povero e crocifisso, che Francesco matura attraverso la continua meditazione dei misteri della vita del Figlio di Dio. Ascoltiamo ancora il primo Biografo per scoprire il segreto semplice e sorprendente del poverello di Assisi:

La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di seguire fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e il fervore del cuore l’insegnamento del Signore nostro Gesù Cristo e di imitarne le orme.

Meditava continuamente le sue parole e con acutissima attenzione non ne perdeva mai di vista le opere. Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione aveva impresse così profondamente nella sua memoria, che difficilmente voleva pensare ad altro.

(Vita Prima di Tommaso da Celano 84: FF 466-467)

Nell’estate del 1224, Francesco con alcuni compagni si ritirò sul monte della Verna per trascorrervi la quaresima in preparazione alla festa di San Michele Arcangelo. Appressandosi la festa dell’Esaltazione della Santa Croce, la preghiera di Francesco si fece più intensa e il suo cuore desiderava di sperimentare nell’anima e nel corpo, quanto fosse possibile, il dolore che il Signore Gesù sostenne nell’ora della sua acerbissima passione; e di sperimentare nell’anima e nel corpo, quanto fosse possibile, l’amore di cui il Signore Gesù era acceso nel sostenere volentieri tanta passione per i peccatori.

In una bella preghiera riportata nei Fioretti, Francesco chiede di provare l’amore e il dolore del crocifisso:

O Signore mio Gesù Cristo, due grazie ti priego che tu mi faccia, innanzi che io muoia: la prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nella ora della tua acerbissima passione; la seconda si è ch'io senta nel cuore mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori.

(Fioretti, Terza Considerazione sulle Stimmate: FF 1919)

Ma ascoltiamo uno stralcio del racconto di san Bonaventura, per scoprire cosa è realmente successo:

Un mattino, all’appressarsi della festa dell’Esaltazione della santa Croce, mentre pregava sul fianco del monte, vide un Serafino, con sei ali tanto infocate quanto luminose, discendere dal cielo: esso con rapidissimo volo, giunse vicino, librato nell’aria, all’uomo di Dio, e allora apparve tra le sue ali l’effigie di un uomo crocifisso, che aveva mani e piedi stesi in forma di croce e confitti alla croce. Due ali si alzavano sopra il suo capo, due si stendevano a volare e due velavano tutto il corpo.

A quella vista si stupì fortemente, mentre gioia mista a tristezza gli inondava il cuore. Provava letizia per l’atteggiamento gentile, con il quale si vedeva guardato da Cristo, sotto la figura del serafino; ma il vederlo confitto in croce gli trapassava l’anima con la spada dolorosa della compassione.

Scomparendo, la visione gli lasciò nel cuore un ardore mirabile e l’effigie di segni altrettanto meravigliosi gli lasciò impressa nella sua carne. Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, incominciarono ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva osservato nell’immagine dell’uomo crocifisso.

Così il verace amore di Cristo aveva trasformato l’amante nell’immagine stessa dell’amato.

(Leggenda maggiore di san Bonaventura XIII, 3-5: FF 1225-1228)

Di fronte al serafino crocifisso Francesco sperimenta amore e dolore, rimandando alla dinamica pasquale di croce e risurrezione, di dolore e di gloria, di morte e di vita. Si tratta di un vissuto pasquale: la croce per il cristiano non è mai solo dolore, marchia il corpo di Francesco con i segni della Pasqua. Quando si parla delle stimmate non si può dimenticare infatti che esse sono nei vangeli, i segni del riconoscimento del Risorto, che si presenta ai suoi offrendo al loro sguardo proprio quelle piaghe, ormai glorificate, segno insieme di morte e di vita nuova. Le stimmate appaiono come la esigente risposta di Dio che invita Francesco, ancora una volta, a fare la pasqua del Figlio suo, pasqua di morte e risurrezione che lascia i suoi segni nella carne di Francesco.

Tutto quello che ci siamo detti rappresenta un prezioso dono che Dio ci ha fatti convocandoci insieme, a noi la libera scelta di rispondere con rinnovata passione al servizio che svolgiamo a favore dei poveri, vedendo in loro, sempre e solo, il Cristo, povero e crocifisso per amore.

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