Figli della Madre Chiesa

Pur conoscendo l’esistenza della Gioventù Francescana di Pavia, non ho mai avuto modo di conoscerne da vicino i componenti, né tantomeno di interrogarmi su come avvenisse la loro formazione. L’occasione mi è stata offerta da Fr. Enrico quando mi ha chiesto di partecipare ad un incontro di preparazione alla emissione (o rinnovo) della loro Promessa. 

Essa recita: “Vogliamo essere una comunità di fede che ha l’Eucaristia come centro, il Vangelo come guida, la Chiesa come madre, i poveri e gli ultimi come fratelli”. Questi quattro punti costituiscono i cosiddetti “pilastri” della loro Promessa. Di appuntamento in appuntamento essi vengono affrontati attraverso la testimonianza di un fedele che narra la propria esperienza di fede.

Con totale libertà, mi è stato affidato quello riguardante la “Chiesa come madre”.

Nel cercare di raccogliere pensieri, ricordi e documenti su un tale argomento, sono stato colto da un certo scoraggiamento, perché, pur avendo ben chiaro gli episodi della mia vita in cui ho toccato con mano la maternità della Chiesa, essi non mi sono parsi utili all’approccio della questione. 

Che la Chiesa sia una madre generante, accudente, accogliente e misericordiosa (tutti aspetti che sono emersi anche durante l’incontro insieme a molti altri) è un dato di fatto che di per sé non ha bisogno di essere vincolato da alcuna promessa. Oltretutto, questa consapevolezza nei suoi riguardi non può che essere un punto d’approdo, non certo di partenza; altrimenti, una visione di base tanto conciliata - per quanto corretta - rischierebbe di depotenziare la carica di fatica necessaria alla libertà della promessa stessa (“Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso.” Lc 6, 32).  In altre parole: la Chiesa è madre (o “mamma”, come dice Papa Francesco) al di là del fatto che i cristiani si riconoscano suoi figli. Eppure un conto è essere figli, un altro è riconoscersi tali e accogliere questa condizione con tutte le difficoltà che essa può comportare.

Mi era parso dunque che la Promessa della GiFra vertesse su questo. Non a caso, una delle parole emerse è stata “obbedienza”. 

Obbedienza a cosa? Alle raccomandazioni che la nostra madre bimillenaria ci offre? Sì, anche. Ma un figlio non obbedisce soltanto mettendo in pratica quello che gli dicono i genitori: il figlio ammodo nella parabola del padre misericordioso ha ben chiaro cosa significhi obbedire in tal maniera, ma ne esce esacerbato. Superata l’adolescenza, si sa che l’obbedienza ai propri genitori passa solo in ultima battuta dal prestare ascolto ai loro consigli, per quanto sicuramente espressi in nostro favore. Prima è necessario riconoscere il bene possibile nelle premesse che essi hanno disposto. Nessun figlio ha origine in sé, si muove in un corpo e in una condizione che non ha scelto né voluto, ma rifiutare questo dato provandone sfiducia significa condannarsi a una solitudine senza storia (“Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato […]»” Eb 10, 5).

Quali parole abbiamo dunque per il nostro vissuto ecclesiale? E come lo relazioniamo alla nostra fede? Queste sono le domande che mi porto da quella serata di formazione.

Riconosco infatti la mia tentazione di astrarla dalla sua origine, come se fosse il frutto immediato di un incontro diretto con Dio. Invece il Signore chiama sì personalmente, ma mai individualmente, proprio perché intercetta attraverso la sua sposa, che è la Chiesa, fatta non solo di magistero, ma di volti e storie.

Agostino

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