IV Domenica di Quaresima (Anno C)

Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita

Lectio divina sulla Parola della IV Domenica di Quaresima (Anno C)

Il Vangelo che ci offre la IV Domenica di Quaresima di questo anno C è la bellissima parabola del figlio prodigo o Padre misericordioso. Si tratta di una parabola propria del vangelo di Luca ed è contenuta nel capitolo 15, dove sono raccolte anche le altre due parabole della misericordia: della pecora perduta e della moneta perduta.

La parabola è compresa nei vv. 11-32, il brano liturgico fa precedere i vv.1-3, necessari per descrivere il contesto nel quale la parabola è narrata. Risulta essere la risposta di Gesù alle mormorazioni dei farisei e degli scribi, indignati dell’uso di Gesù di banchettare con i pubblicani e i peccatori.

Questa IV Domenica di Quaresima è segnata particolarmente da un clima di gioia: "rallegratevi" (cfr. le orazioni della messa). 

Nel brano evangelico risuona il verbo "festeggiare", a cui si aggiunge anche il verbo della gioia che scandiva le due precedenti parabole gemelle della pecora e della dramma perduta e ritrovata.

Esaminiamo il brano

vv. 1-3

1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola: 

Di questi versetti che introducono le tre parabole della misericordia, notiamo due aspetti.

  1. A Gesù si avvicinano tutti i pubblicani e i peccatori (non ne manca uno!), per ascoltarlo: ascoltarlo significa diventare discepoli. Tutti si pongono in atteggiamento di discepolato nonostante le strette esigenze appena espresse sul discepolato: rinunciare a quanto si ha caro, rinunciare in particolare a tutti i propri beni (14, 25-35). Assieme ai pubblicani e i peccatori, ci sono anche i farisei e gli scribi (anch’essi sono tutti, poiché sono «i farisei e gli scribi» non «dei farisei e degli scribi».
  2. Nel riprendere la mormorazione di scribi e farisei, motivata dal perché «costui accoglie i peccatori e mangia» con i peccatori, quando Gesù è appena uscito da un pranzo a casa di un capo dei farisei (14,1ss.).

 

vv. 11-12

11«Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze.

«aveva due figli»: i due figli indicano la totalità degli uomini; peccatori о giusti, per lui siamo sempre e solo figli, per questo ha compassione di tutti e non guarda i peccati.

Evidenziamo che vengono usati due termini differenti per esprimere i beni che domanda il figlio minore e che il padre spartisce:

  1. Il giovane chiede la padre la parte del patrimonio che gli spetta. Patrimonio, traduce οὐσία (ousía), letteralmente essenza, sostanza. Questo figlio, vede in quegli averi ciò che gli permetterà di essere, cosa che, a quanto pare, non gli riesce a casa.
  2. Il padre divise tra loro le sue sostanze, βίος (bíos), letteralmente, la vita; egli pensa alla vita dei figli, dà a loro di che vivere.

Da notare che la spartizione avviene «tra loro», e dunque ciascuno dei figli, e non solo il più giovane, ha ricevuto la sua parte.

È anche significativo che il padre non faccia nulla per trattenere il figlio e, diversamente da quanto avviene nelle due parabole precedenti, non vada in cerca di lui quando se ne va lontano. Il figlio, infatti, non è una “cosa” perduta come la moneta o la pecora, è un uomo libero che fa le sue scelte in piena libertà. Il padre rispetta la sua libertà, anche se con trepidazione, come mostra il fatto che ogni giorno è in attesa e va a guardare se lo vede tornare; sa bene che andare lontano dalla casa paterna è andare in perdizione, “morire”. Nelle prime due parabole, non c’è colpa della pecora o della moneta perduta; sono il pastore e la donna che perdono il loro bene.

«dammi»: δός (dos), attivo imperativo aoristo di δίδωμι (dídōmi), dare: inizia un'azione nuova. Alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cfr. Dt 21,17; Sir 33,20-24.

vv. 13-20a

13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.

 

Si descrive un lento fallimento del figlio minore. Lì dove traduciamo con sperperò, sarebbe disperde - διασκορπίζω (diaskorpízō) - cioè l’opposto di quanto aveva prima fatto raccolto. Questo avviene perché ha scelto di vivere in modo dissoluto, ἀσώτως (asṓtōs) che evoca uno stare fuori dalla salvezza.

Lo stare fuori dalla salvezza è confermata dal v. 15, dove si dice che il ragazzo si mette a servizio di un pagano che lo manda a pascolare i porci.

Il termine «mettersi al servizio», ἐκολλήθη (ekollēthē), letteralmente significa unirsi, attaccarsi, fissarsi saldamente, è utilizzato fra l’altro per dire l’attaccamento a Dio per opposizione al servizio degli dei stranieri (cfr. Dt 6,13; 10,20; Sir 2,3; 1Cor 6,16-17). 

La presenza dei porci indica chiaramente che il figlio minore è uscito dal mondo ebraico: ha rinunciato alla sua appartenenza al popolo di Dio. In questa situazione, scopre la sua solitudine: lo assale la fame, ma nessuno gli dà da mangiare, nemmeno il cibo di cui si nutrono i maiali.

«saziarsi». γεμσαι τὴν κοιλίαν (gemisai tēn koiliano), riempirsi il ventre.

«rientrò in se stesso». È importante sottolineare il doppio “ritorno” che effettua: prima ritorna in sé; dunque la sua partenza per un paese lontano era anche stata un uscire da se stesso; era diventato un altro rispetto a sé. Ecco il risultato del peccato: ci fa diventare altri rispetto a come Dio ci aveva creati. Ritornare in sé, e cioè vedersi come realmente si è, è prendere coscienza della distanza esistente tra il progetto di Dio e il risultato della nostra libertà. Inizia allora il secondo movimento, il ritorno a casa, l’”andare dal Padre”, segnato dal verbo alzarsi, ἀνίστημι (anístēmi), che evoca la risurrezione.

A dire il vero la sua conversione è più a se che non al padre, è materialista e pragmatica: “Qui non ho nulla da mangiare, mentre i salariati di mio padre (che sono poi i più sfortunati dei suoi operai, quelli che oggi chiamiamo precari), non mancano di nulla, mio preparerò un bel discorso e posso sperare che il padre accetti di farmi da padrone”.

Vediamo la frase che il giovane si prepara:

 

Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati

 «Padre». Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Ha ancora una falsa immagine del Padre.

«ho peccato»: dalla considerazione della sua miseria il giovane passa al riconoscimento delle sue colpe; non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell'eredità; l'essere andato lontano; l'aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.

«contro il cielo»: modo ebraico di dire, per evitare di pronunciare il nome di Dio. Vale a dire contro Dio.

«non sono degno di esser chiamato tuo figlio»: ma del resto, essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell'essere figlio non c'è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito; pensa non avendola meritata, di rinunciare alla sua paternità. La conversione non è diventare "degni", o almeno "migliori" o "passabili", per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.

«trattami»: attivo imperativo aoristo positivo: ordina di cominciare un'azione nuova.

 

vv. 20b - 24

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

 

«ancora lontano»: il Padre non aspetta il figlio indegno al varco per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento.

«lo vide»: per quanto lontano il Padre lo vede sempre; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista («Se dico: «Almeno le tenebre mi avvolgano e la luce intorno a me sia notte», nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce»» Sal 139,11-12). 

Vedere e commuoversi sono anche le due azioni attribuite al samaritano (10,33) e allo stesso Gesù nell’episodio della vedova di Nain (7,13).

«si commosse»: letteralmente «fu colpito alle viscere», ἐσπλαγχνίσθη (esplangnìsthe) indica l'aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come «padre misericordioso », cioè insieme come padre e come madre (Luca usa "οἰκτίρμων: oiktírmōn” che traduce l'ebraico «rahamin», che indica il ventre, l'utero materno che genera). La paternità di Dio per sé viene dopo la sua maternità; per questo siamo generati e amati senza condizioni, da sempre e per sempre accolti

Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello dì una madre verso il figlio malato (cfr. Is 49,14-16; Ger 31,20 s; Sal 27,10; Os 11,8; ).

«correndo»: è un atteggiamento che non conviene a una personalità orientale che deve sempre conservare la sua dignità

«si getto al suo collo»: letteralmente è «caduto sul collo di lui». Esempi nella scrittura sono Esaù, il fratello al quale fu rubata la primogenitura, cadde sul collo di Israele, contro ogni sua aspettativa (Gen 33,4). Anche Giuseppe, venduto come schiavo dai fratelli, si getta sul collo di Israele (Gen 46,29).

«lo baciò»: è il segno del perdono.

Importante. Notare che al v. 21, il figlio cerca di pronunciare la formula memorizzata ma il padre prende subito l'iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione

Il padre non rivolge la parola al figlio ma ai servi. Questa però non è una presa di distanza. Il padre vuole che anche i suoi servi vedano la riabilitrazione del figlio.

«la veste migliore»: lett. il vestito primo, dove s'intende quella veste che è la prima in ordine di tempo e di dignità. È l'immagine e la somiglianza di Dio, gloria e bellezza originale che rivestiva l'uomo.

«l’anello»: è il segno dell'autorità (cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2)

«sandali»: è un altro segno della recuperata figliolanza, della libertà di figlio; lo schiavo non porta sandali.

vv. 25-32 

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».

Dobbiamo ricordare l’inizio del brano dove si dicevano che vi erano davanti a Gesù tutti i pubblicani e peccatori e tutti i farisei e gli scribi. I due figli sono immagine di due forme di peccato che sono espresse nei due tipi di uditori. Se i pubblicani e peccatori sono rappresentati dal figlio minore, i farisei e gli scribi, che mormorano contro Gesù, dal figlio maggiore, il quale apparentemente è irreprensibile, ma non si sa se, invitato ad entrare, entrerà. È questo quindi il caso problematico che costituisce il vertice della parabola. È il figlio maggiore colui che deve essere ancora ritrovato.

«Il figlio maggiore»: il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto.

«chiamò uno dei servi e gli domandò…»: colui che si ritiene giusto non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.

«si arrabbiò»: conosciuto l'avvenimento reagisce come davanti ad una minaccia; è venuto meno il fondamento della sua esistenza. Quest'ira è il contrario della compassione del padre. Giona si contristò mortalmente alla prospettiva di un Dio simile (cfr. Giona 4,3.8.9).

«non voleva entrare»: l'ostinazione del giusto è dura, come quella di Giona. Attraverso la porta della misericordia i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono.

«il padre uscì a pregarlo»: (lett. «a consolarlo») anche con questo figlio il Padre è colui che si muove per primo.

«rispose a suo padre»: paziente, quel Padre che non ha ascoltato l’umiliazione penitente del secondogenito, ascolta ora le accuse del primogenito.

«ti servo... non ho trasgredito»: è il servizio dello schiavo (duleo), non l'obbedienza del figlio verso il Padre. Il tempo presento sottolineala condizione permanente scelta da questo figlio che come uno schiavo non si è mai sognato di trasgredire un comando del Padre.

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