Venerdì Santo

Un soffio di vento mi desta da un sonno che credevo definitivo. Scorgo in lontananza il profilo di una città che non rivedrò mai più e, subito, un senso di angoscia e rassegnazione mi pervade dolorosamente. La gente presente in massa, e che assiste alla mia crocifissione proprio come fosse uno spettacolo, deridendomi, mi addita di essere un delinquente, un disonesto, e pertanto un “meritevole” della tremenda fine che mi appresto a fare. Se soltanto sapessero la dura vita che ho dovuto condurre fino a questo momento.

La mia esistenza, infatti, è sempre stata costellata di tragici eventi, così come estenuante è stata la lotta per la sopravvivenza che mi è toccata in sorte. Abbandonato dai miei genitori fin da piccolo, sono riuscito a sopravvivere in questa vita soltanto grazie a furti ed altri gravi espedienti, che, così, mi hanno condotto alla pena capitale della crocifissione.

Mentre osservo questa gente semplice, ma nel contempo così meschina, mi rendo conto d’un tratto che, i miei pensieri,non mi hanno permesso di accorgermi che, crocifisso tra me e l’altro ladrone condannato al mio stesso processo, vi è anche un altro uomo. Di lui non so veramente nulla, né quali colpe pendano sul suo capo. Provo così ad osservarlo con più attenzione e, nel profondo, provo la netta sensazione di conoscere già quell’uomo.

Questa sensazione non richiama però al ricordo di un avvenimento accaduto poiché, quel volto, io non l’ho mai incontrato prima d’ora. Ma sento nel mio cuore che quella persona, per qualche assurdo motivo, ha già da tempo incrociato le strade della mia vita. E’ una sensazione estremamente paradossale, così, come paradossale, è il fatto che mi basti osservare quel profilo per pacificare profondamente la mia anima. Quello sguardo, infatti, scaccia via ogni timore riguardo alla morte, lasciando spazio unicamente all’attesa.

Delle urla, provenire da non molto lontano, mi riportano alla realtà che mi circonda. Un gruppo di sacerdoti, infatti, dopo essersi avvicinati in massa all’uomo, danno il via ad una serie di ripetuti insulti nei suoi confronti. Cosa avrà fatto di così grave per non aver tregua nemmeno in punto di morte?. Uno di essi così, probabilmente il capo dei sacerdoti, scostatosi di poco in avanti rispetto agli altri, indicandolo, urla a gran voce: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto!». Udito ciò, un fulmine mi traccia interiormente. E’ proprio lui. E’ proprio lui colui del quale dicono sia il figlio di Dio. Non so se credere a quelle voci che, insistenti, circolano in tutta Gerusalemme, però una cosa è certa: quella presenza, seppur così silenziosa, rende dolce il momento che avrei creduto invece più atroce. Quella presenza, inspiegabilmente, mi rende sereno. Nessuno dei miei conoscenti è presente tra la folla, eppure, incredibilmente, non mi sento solo.

Dopo i sacerdoti, anche un gruppo di soldati gli si fa prossimo, uno dei quali, imbevuta una spugna di aceto e strusciata sul volto, suscita l’ilarità degli astanti. Lo stesso centurione poi, non ancora sazio, giunto proprio ai piedi della sua croce, in tono provocatorio gli sussurra: «Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso».

Provo grande pena per questo galileo, la cui unica colpa è stata quella di aver provato a portare amore nella vita degli uomini; mentre io sì, io merito questa fine, perché nella vita ho sempre e solo fatto del male, rubato, percosso; ho sempre messo me stesso al primo posto a scapito di tutto e tutti.

La cosa che però più mi sconvolge, è il silenzio con cui risponde alle provocazioni che non gli danno tregua. Il suo infatti non è un silenzio di rassegnazione, ma pieno, traboccante, compassionevole, come se fosse a conoscenza di qualcosa che noi ancora non possiamo né sapere né capire.

Anche l’altro uomo condannato alla nostra stessa pena - che è posto alla sua sinistra – comincia con lo schernirlo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ho taciuto fin troppo a lungo, e così impetuosamente mi intrometto, perché no, anche chi è condannato alla nostra medesima sorte non può deriderlo. Con l’ultimo filo di voce che mi resta urlo: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena? noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male!».

Vedo così quel Gesù voltarsi lentamente verso di me. Sono pochi attimi, ma che ci separano dal mondo intero, non lasciando spazio soltanto che a me e Lui. Quando finalmente il suo sguardo si posa sul mio, avverto un’emozione indescrivibile pervadermi il cuore. Quello sguardo, così buono e compassionevole, chissà come, sta scrutando la mia anima, la sta guarendo, la sta accarezzando. In quelle dolci carezze, poi, provo la certa sensazione che quell’Uomo-Dio mi ami da sempre, e che è lì, proprio su quella croce, per portare salvezza alla mia vita.

Prorompo così in un interminabile pianto e, ad ogni lacrima, scivolano via colpe e ferite che, per troppo tempo, hanno abitato il mio cuore. Ciò che più mi tocca, è la profonda sensazione di misericordia che quel momento mi sta donando.

Adesso tra me e lui vi è unicamente il nostro reciproco sguardo, un luogo di pace, protetto ed ospitale, che vorrei durasse per sempre. Sento però che il tempo scorre, e così, con un filo di voce, invoco definitivamente grazia: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Un dolce sorriso affiora sul volto deturpato del figlio di Dio, proprio come se egli stesso stesse attendendo quelle parole. D’un tratto il Cristo emette il suo giudizio: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso».

Irrompo così in un altro fragoroso pianto: Egli è davvero il Salvatore, il Figlio di Dio. Colui  che è giunto per la mia salvezza!

Non mi resta dunque che mettermi in attesa. Un’attesa che sa già di eternità.

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