Ecco, io faccio nuove tutte le cose

È il giorno di S. Lucia 2010…

Ancora una manciata di giorni e sarà Natale. La festa e la gioia sono nell’aria: in Chiesa si canta “Andiamo con gioia incontro al Signore che viene per noi”; in casa ci pensano loro, le mie nipotine Miriam di 11 anni e Marta di 6, a creare il clima dell’attesa e della gioia per questa festa tutta da vivere in famiglia.

Ma in serata mi arriva una telefonata da mia figlia. È agitata e mi sta dicendo che Miriam le ha mostrato una grossa tumefazione alla mano e un gonfiore all’ascella. Immediatamente, avvertiamo spaventate, che c’è qualcosa di grave e portiamo Miriam all’Ospedale. La decisione di un immediato ricovero accresce il timore e l’apprensione ma cerco di mantenermi calma, per mia figlia, per Miriam. “Signore! Ho paura. Aiutaci!”.

Si è fatta notte e mia figlia deve tornare a casa perché l’aspetta l’altra bambina e così mi trattengo io in Ospedale con Miriam. “Signore! Ho paura! Aiutami!”. Non so pensare ad altro se non a chiedere aiuto a Dio. La diagnosi arriva dopo pochi giorni ed è una sentenza di morte: Miriam ha un tumore aggressivo al IV stadio che non potrà concederle più di due anni di vita!

Cosa ci sta capitando? Siamo atterriti. Ci illudiamo pensando che, forse stiamo sognando, ma non c’è nessun risveglio. È tutto terribilmente vero: Miriam, la mia adorata nipotina che da poco aveva cominciato a fantasticare su cosa fare da grande, confidandomi i suoi sogni, ora è gravemente ammalata, privata del suo orizzonte di vita...

“Signore, non puoi permetterlo!!” Lo so che sto gridando preghiere sconnesse e chiedo a Dio di perdonarmi, ma è tutto così terribile e ingiusto!! È una croce pesante, impossibile da accettare. Nella trama dei miei pensieri non trova spazio la croce: “Tu Signore ci hai fatti per la Gioia!! Signore! non capisco!! Aiutami!!

Inizia il Calvario delle cure e dei ricoveri, dei pianti di Miriam e del dolore trattenuto e mascherato dei suoi genitori. Vedo le persone che amo, soprattutto la mia piccola Miriam, che portano un dolore troppo grande e mi rendo conto che questa vista mi è insopportabile e diventa, la mia impotenza, la croce più pesante da portare.

In quei terribili giorni, quando mi sembrava che non ci fosse nessuno a raccogliere il mio grido, prendevo fra le mani il Crocifisso e stavo in silenzio a guardarlo. Fissando lo sguardo su Gesù, inchiodato alla Croce per aver amato gli uomini fino a morire, mi sembrava di non essere più sola con il mio dolore, mi sembrava di sentire che il mio cuore si dilatasse per accogliere tutto il dolore del mondo. In quegli istanti, con la stessa leggerezza di un refolo di vento che sposta un velo, e con la stessa potenza di un tuono che squarcia il cielo, potevo sentire nascere in me una strana appartenenza a tutta l’umanità sofferente. Quella stessa umanità che ancora oggi, chiede e si interroga attonita sul “perché” della Croce, sul significato di questo carico pesante, privo e scevro da ogni ragione, da ogni significato, incomprensibile e misterioso per la nostra mente. Ancora, come allora, sento il dolore, il grido di ogni madre e padre che urla, nelle corsie degli ospedali, nel fragore delle guerre, nel frastuono delle violenze, l’insostenibilità della perdita dei figli, loro eredità, depositari del loro fine ultimo.  La loro voce, però, non rimane inascoltata, ma arriva all’apice della Croce che oggi contempliamo perché ha portato Gesù, l’UOMO che si è proclamato Figlio di Dio e che dice agli smarriti di cuore: “ECCO, IO FACCIO NUOVE TUTTE LE COSE”.

Lidia

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