Lectio VI Domenica di Pasqua (Anno B)

Una parola fonte di gioia

VI Domenica di Pasqua (anno B)

Il brano evangelico questa domenica è la continuazione della metafora della vite e dei tralci, all’interno del grande discorso di addio nel Quarto vangelo, che si concentra su due domande essenziali: che significa rimanere in Cristo? Quali sono i frutti che il Padre si attende? 

Tutto il discorso di Gesù ha uno scopo molto preciso che troviamo al versetto 11: «Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena».

Lo scopo della rivelazione di Gesù è trasfondere la sua gioia nei discepoli.

Il tema della gioia tornerà poi, in modo più ampio, in 16,16-23 («…Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia… ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia»)  e nella preghiera dell'«ora», 17,13 («Ma ora io vengo a te e dico questo mentre sono nel mondo, perché abbiano in se stessi la pienezza della mia gioia»). 

Dio nella storia agisce da sempre per la pace, per la gioia della sua creatura: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo - dice il Signore - progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). 

Il Signore non si diletta della morte dell'empio, ma vuole la sua conversione, per fargli godere la vita (cfr. Ez 33,11).

Quali sono le caratteristiche di questa gioia?

  • è la gioia del Cristo, non quella che l'uomo può illudersi di trovare altrove;
  • come tutte le realtà della vita cristiana, la gioia è contemporaneamente presente e futura, già data e tesa alla pienezza;
  • è una gioia che si ritrova nell'amore fraterno, non diversamente.

Rileggiamo ora il testo cercando di soffermarci su alcune espressioni particolari

v. 9

9 Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore.

Amore (verbo agapáō, sostantivo agàpe).

In questo versetto si riconosce una logica rigorosa.

  • Da una parte, vi è l’amore del Padre verso il Figlio, che “costringe” a sua volta Gesù ad amare i discepoli; 
  • Dall'altra, c'è l'amore di Gesù verso i discepoli, che “costringe” questi ad amarsi vicendevolmente, come Lui ci ha amati.

In Giovanni, l’amore ha sempre una qualità divina (è una realtà teologale). Qualsiasi tipo di amore pensabile ha la sua origine in Dio e la fonte dell’amore di Dio è eterna.

Il verbo agapáō a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, quando è applicato a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato. La seconda lettura, 1Gv 4,7-10, ci dice che caratteristica dell’amore divino è quella di prevenire sempre l’amore dell’uomo; Dio non aspetta di essere amato per amare («non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi»).

Questo ha una conseguenza molto importante. Ognuno di noi è innanzitutto oggetto di carità prima di essere soggetto

«Rimanete in»: troviamo ancora il verbo rimanere (ménō) che è l'espressione dominante in questa prima sezione del discorso di addio; nei vv. 1-17 ricorre ben undici volte (su 40 di tutto il vangelo di Giovanni).

v. 10

10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.

Gesù mette in parallelo la relazione dei discepoli con lui e la sua con il Padre (cfr. 10,14-15: «14 Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15 così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore»). In entrambi i casi, la caratteristica del vero amore è la fedeltà. Quindi, compiere i suoi comandamenti equivale a mantenersi nel suo amore. Si insiste sulla necessità della prassi come criterio dell’unione con lui. Già leggendo i versetti precedenti (il vangelo di domenica scorsa), abbiamo visto come il rimanere in Gesù, e quindi il rimanere nel suo amore, non si risolva con una permanenza romantica o mistica, ma concreta ed esigente.

«se osserverete»: Il verbo tēréō, che traduciamo con osservare, è molto più che eseguire gli ordini, significa, custodire un dono, prendersi cura, conservare una relazione, accogliere e vivere la logica della relazione generosa. Compito dei discepoli è «custodire» tale dono.

«i miei comandamenti»: Anche in questo caso, il vocabolo originario «entolé» ha una sfumatura diversa dalla traduzione “comandamento”. Il termine tradotto, oltre a richiamare i Dieci comandamenti, suona un po' troppo come ordine. Questa volta ci chiarisce meglio il significato un termine inglese, input  che evoca quindi una parola che mette dentro all'ascoltatore una spinta all'azione, una raccomandazione che offre una possibilità buona di vita. I comandamenti di Gesù infatti coincidono con la proposta del suo amore e non sono imposizione esterna di precetti da eseguire con le proprie forze umane: l'amore con cui il Figlio ha amato i discepoli produce un effetto, li rende cioè capaci di fare altrettanto.

Anche se viene usata una forma plurale («i miei comandamenti») certamente coincide con la formula al singolare, adoperata in precedenza: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).

v. 11

11 Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

La parola che Gesù ha rivelato ai suoi è fonte della gioia.

Come, Gesù, comunica il «suo» amore, così trasmette anche la «sua» gioia (charà). La gioia promessa da Gesù è «la presenza del bene amato». Quindi, chi, incontrando Gesù, lo riconosce come il vero bene, il sommo Bene, e a lui aderisce personalmente con tutto il cuore, si scopre sorpreso dalla gioia. La gioia non sta nelle concrete situazioni della vita, ma piuttosto nella comunione di vita con Gesù Cristo, perché il premio è lui stesso. (cfr. Perfetta Letizia).

La gioia sta nell'essere con Cristo: questa è infatti per ogni persona la possibilità di raggiungere la pienezza di vita.

v. 12 

12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.

L'amore del Padre è stato donato al Figlio, Gesù l'ha donato agli uomini, rendendoli così partecipi dello stesso legame divino e capaci di intessere nuovi e buoni legami umani.

La fonte non pretende di richiamare a sé le acque.

Dio è fonte d’amore. Come una sorgente non recupera le proprie acque, così Dio non vuole «recuperare» il proprio amore. La risposta al suo amore è l’amore tra di noi.

v. 13

13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.

Questa frase deve essere compresa in un senso inclusivo e non esclusivo. Non si deve intendere che l’amore debba limitarsi ai soli amici, piuttosto, Gesù ci dice che la dimostrazione più grande dell’amore per le persone amate è arrivare a dare la propria vita per loro.

vv. 14-15

14 Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l'ho fatto conoscere a voi.

Abbiamo qui due detti che riguardano gli apostoli come «amici» di Gesù.

Gesù oppone due stati opposti, quello del servo (doûlos) e quello dell'amico (filos); la distinzione tra essi consiste nella presenza o meni di un tratto decisivo dell’amicizia, l’intimità: «il servo non sa quello che fa il suo padrone... tutto quello che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi».

Allora l’amicizia si caratterizza per due realtà: 

  1. l'amore (dare la vita);
  2. l'intimità (conoscere i segreti). 

Così come noi, comunichiamo gli aspetti più preziosi della nostra vita interiore solo ad un amico autentico di cui abbiamo grande fiducia e a cui vogliamo bene; Gesù, rivelatore del Padre, ci ha fatto conoscere i segreti del cuore di Dio: da questo comprendiamo che ci ha trattato da amici. Non ci ha trattati da servitori, a cui si danno solo indicazioni di cose da fare, ma ci ha aperto il suo cuore, mettendoci a parte della sua intima relazione con il Padre e con lo Spirito.

Il «servo», nel testo originale la parola corrispondente può significare anche «schiavo», conosce solo la paura ed il rispetto. Quando Gesù chiama i suoi discepoli suoi «servitori», usa la parola diakonos (che ha i significati di servire, aiutare, amministrare, essere utile, essere d'aiuto) e non doûlos.

A proposito dell’amicizia, nella Bibbia ci sono molti riferimenti al valore di questo sentimento:

14 Un amico fedele è rifugio sicuro:
chi lo trova, trova un tesoro.
15 Per un amico fedele non c'è prezzo,
non c'è misura per il suo valore.
16 Un amico fedele è medicina che dà vita:
lo troveranno quelli che temono il Signore. (Sir 6,14-16)

 

Tu mi eri molto caro;
la tua amicizia era per me preziosa,
più che amore di donna. (2Sam 1,26, l’amicizia che unisce Gionata a Davide)

Tutti quelli che si sono affidati al Signore sono stati chiamati suoi amici: Sal 22,9; Abramo è chiamato l'amico di Dio; Mosè parla con Dio faccia a faccia.

vv. 16-17

16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17 Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.

All'origine di tale relazione d'amicizia c'è la libera scelta del Signore, l'iniziativa è la sua.

Abbiamo perciò la consapevolezza di partecipare ad un'opera comune; non importa se un altro possa svolgere meglio quello che sto facendo, Gesù l'ha affidata a me come amico. Lui non ci considera con la legge del rendimento e della produzione, ma con quella della fiducia.

«andiate e portiate frutto»: Ritorna a questo punto il tema della vigna (cfr. Gv 15,5.8) e si precisa nuovamente che l'obiettivo è «portare frutto». Non si tratta però di prospettiva aziendale di massimo rendimento; il frutto sta nel diventare discepoli ovvero amici, il grande frutto consiste in una vita profondamente legata al Cristo con tutti i benefici che ne conseguono. Se rimaniamo in lui possiamo portare davvero frutto.

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