Lui dà la vita per me

Marco S.

Questo fine settimana inauguriamo, o meglio re-inauguriamo, un format particolare per ascoltare il Vangelo, quello della narrazione. Non si tratta di un altro vangelo rispetto i quattro di Matteo, Marco, Luca e Giovanni. È un tentativo di entrare nel Vangelo provando ad assumere i panni di un personaggio che fa parte della scena o che potrebbe farne parte. Questi racconti ci permettono di fare nostre le emozioni e le sensazioni del personaggio secondo la cui soggettiva la storia è narrata. Questa settimana, Marco (GiFra), ci racconta il Vangelo del Pastore Vero così come lo ha vissuto quell'uomo che era nato cieco ma fu guarito da Gesù

 

Mi riusciva ancora difficile abituarmi ai colori del giorno. Vedevo tutto un misto di bagliori e sagome in penombra. Ma quel volto un po' austero che con così tanta autorità, ma al contempo mitezza, parlava alla folla, mi parve tanto chiaro e nitido da sembrare da sempre impresso nella mia memoria. Avevo la paradossale sensazione che quell’uomo, sin dagli albori della mia esistenza, vivesse dentro di me, e facesse parte della mia vita.

Oltre a ciò, ad accentuare la mia confusione, vi erano anche tutti i fatti appena accaduti, e che si erano succeduti ad una folle velocità: quell’uomo mi aveva guarito dalla cecità che mi accompagnava dalla nascita e, soprattutto, mi aveva detto apertamente che io non ero un uomo “tutto nei peccati” bensì una creazione dal valore inestimabile agli occhi del Padre suo.
Sì, perché quell’uomo, quel Gesù – così diceva di chiamarsi - non mi aveva soltanto guarito la vista: egli era venuto a dirmi che Dio in realtà mi amava, nonostante quell’infermità che fino ad allora mi aveva fatto credere il contrario.

E ora lui era lì, accerchiato da quegli altri che solevano accusarlo di essere un impostore ed un ingannatore. Ma come può ingannare chi, con azioni concrete, dimostra l’amore di quel Dio che con tanta solerzia proclamiamo all’interno delle nostre sinagoghe?
Infatti egli mi era passato accanto e, a differenza di tutti quei Giudei che erano soliti riempire le strade di Gerusalemme, mi aveva notato. Ed avendomi notato io ero finalmente tornato a sentirmi vivo.
Adesso però si vedeva incolpato di aver compiuto il miracolo di cui ero stato protagonista nel giorno di sabato. Ma perché? Perché la legge ed i precetti devono prevalere sul bene e sull’amore? Era questo ciò di cui non riuscivo a capacitarmi: egli mi aveva guarito con un miracolo mai visto prima ridonando dignità alla mia esistenza, mentre loro pensavano al modo in cui la legge sul sabato era stata trasgredita.
E così d’un tratto, pensando proprio al modo in cui Gesù aveva operato di sabato, sentii dentro me la netta sensazione che le cose stavano finalmente cambiando, e per sempre: il Cristo ci stava liberando da quelle catene che fino ad allora non ci avevano permesso di vivere.
Invero, ci stava liberando dal mortale giogo dell’indifferenza, e così tutto ritornava ad acquisire valore.

All’improvviso, però, le sue parole mi investirono come un uragano: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il mercenario invece, che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde; egli è un mercenario e non gli importa delle pecore».
Sì, davvero lui era veramente il buon pastore, e lo aveva appena dimostrato apertamente. Mi aveva guarito consapevole che questa azione avrebbe potuto significare la sua condanna a morte.
Lui stava dando la sua vita per me di fronte a quei mercenari vittime della loro stessa sapienza e presunzione.
Egli era il buon pastore, ed io d’ora in avanti non volevo altro che far parte del suo gregge.

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