La fede nel tempo dell'incertezza - Catechesi Quaresima 2021

Amos

La fede e la giustizia

Frequentemente, quando si pensa ai profeti li si immagina come degli anticipatori di futuro, se non come una specie di indovini circa quello che deve accadere, oppure come dei creatori di novità. Queste letture dei profeti non rispettano la loro vera funzione. I profeti non sono innovatori o previsori di futuro. Piuttosto potrebbero essere considerati difensori dell’antico, dei conservatori. I profeti sono uomini di Dio, preoccupati unicamente di difendere lo spazio della sua gloria in Israele e nel mondo. Quindi, i profeti, per fedeltà al Signore sono attenti a recuperare il messaggio dell’alleanza in tutta la sua purezza originaria, ed al tempo stesso nella sua carica innovativa, reagendo a tutte le interpretazioni accomodanti. Per questo il profeta finisce spesso con l’essere inquietante, al punto di incontrare l'incomprensione, il rifiuto e la solitudine da parte delle autorità e del popolo.

I profeti sono attenti a tutti gli avvenimenti della politica nazionale e internazionale, sociale e religiosa, misurandoli sulla fedeltà all'alleanza e giudicandoli in base alla loro capacità di condurre verso il futuro promesso da Dio. Per questo la loro analisi della situazione - che spesso è fatta di denuncia - è sempre diversa da quella dei politici - ad esempio - che vedono una minaccia per Israele nella volontà di dominio degli altri popoli e nella debolezza dei propri eserciti. Cercavano perciò la salvezza nelle alleanze. La valutazione del profeta è completamente diversa: la rovina viene dal tradimento dell'alleanza, e perciò la salvezza sta nella conversione.

Allora i profeti non sono mai politicamente schierati, né lo sono socialmente. Sono semplicemente dalla parte di Dio. Il loro discorso è religioso. Sono uomini di Dio, ma proprio dalla loro visione di Dio discende inevitabilmente l'esigenza di un cambiamento sociale e politico. Non predicano la politica o la riforma sociale, ma le esigenze di Dio sulla società e sulla politica.

La vocazione del profeta Amos

Amos è di Tekoa, un piccolo villaggio di Giuda (Sud) vicino a Betlemme «il quale ebbe visioni riguardo ad Israele (Nord), al tempo di Ozia, re della Giudea, e al tempo di Geroboamo II re d’Israele» (cfr. Am 1, 1), nell’ottavo secolo prima di Cristo. Possedeva un allevamento di bestiame di cui si prendeva cura e un terreno piantato a sicomori.

Era un uomo saldamente attaccato alla vita dei campi, di cui conosceva le fatiche e le gioie. La sua fantasia è impregnata di immagini agresti: l’alta statura dei cedri e la forza della quercia (2,9), un carro stracarico di paglia (2,13), la pioggia di un acquazzone primaverile che bagna un campo e non quello vicino (4,7), uno sciame di cavallette che rovina il raccolto (7, 1-3), la siccità che brucia la terra (7, 4-6) e i frutti maturi (8,2). Conosceva il ruggito del leone (3,4) e tutte le bestie che minacciavano l’uomo mortalmente: leone, orso, serpente (5,19). La vita campestre era penetrata in lui ed emergeva di continuo dal suo modo di pensare e di esprimersi.

Quando ricorda la sua vocazione, utilizzando le immagini che le sono note, la descrive come qualcosa di imprevisto e irresistibile. La voce di Dio è come il ruggito del leone quando insegue e afferra la preda (1,2; 3,4).

Ruggisce il leone:
chi mai non trema?
Il Signore Dio ha parlato:
chi può non profetare?
(Am 3, 8)

Questo ruggito è irresistibile, provoca sgomento e tremore nel profeta.

Ruggisce forse il leone nella foresta,
se non ha qualche preda?
Scatta forse la trappola dal suolo,
se non ha preso qualche cosa?
(3,4-5)

Quindi la tagliola è scattata, Dio ha preso Amos (7,15). Se egli profetizza è perché Dio gli ha parlato. Chi ascolta la parola divina deve profetizzare! Amos è come forzato da un ordine a fare il profeta: «Va’, profetizza al mio popolo Israele» (7,15).

Sulla sua vocazione ritorna in un secondo passo. Nel tempio nazionale di Betel egli ha osato criticare la politica del re. Amasia, il rettore del santuario, ne è allarmato ed invita il profeta ad allontanarsi e a profetare altrove. Come è possibile parlare male del re in un santuario nazionale, sostenuto dalla munifica beneficenza del re? Ma non si lascia intimorire. E così risponde al sacerdote che lo minaccia:

Amos rispose ad Amasia e disse:
«Non ero profeta né figlio di profeta;
ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro.
(Am 7, 14)

Amos non è un profeta del re, e non fa il profeta per vivere, non è un professionista della religione, come invece il rettore del santuario. Non dipende da nessuno se non da Dio. Sta qui la radice della sua libertà . La sostanza della vocazione e della funzione profetica di Amos è determinata interamente da una gratuita iniziativa di Dio, espressa in due frasi, che rispettivamente designano il momento della scelta («Il Signore mi prese») e il momento dell'invio («Va', profetizza»). Sono i due elementi tipici di ogni vocazione: la chiamata e la missione.

Un ulteriore elemento che caratterizza la coscienza dei profeti: la certezza interiore. Amos è certo che la sua parola è parola di Dio. Ricorrenti sono le espressioni: «Il Signore mi ha detto», «Il Signore mi ha fatto vedere», «Parola del Signore».

Da dove il profeta trae questa sua certezza? Da dove ricava la sorprendente lucidità con cui legge gli avvenimenti e la politica e li giudica? Senza dubbio è qui in gioco un'esperienza religiosa profonda, personale, sotto diversi aspetti unica e irripetibile. Il profeta ha una conoscenza immediata della volontà di Dio.

Si potrebbe pensare che le visioni di Amos (ed i genere dei profeti biblici) siano esperienze estatiche, ma rileggendole troviamo descritte delle esperienze comuni, per nulla eccezionali, che molti uomini al tempo di Amos potevano aver fatto: uno sciame di cavallette che piomba sui campi e li devastano; una prolungata siccità che produce sulla campagna l’effetto del fuoco; un muratore che verifica con il filo a piombo un muro; un canestro di frutta matura (cfr 7, 4; 8,3). Questi fatti osservati dal profeta si caricano di significato profondo. Un intuizione che potremmo dire poetica e un impulso dell’ispirazione divina che fanno percepire il plus-valore di quei fatti sperimentati.

Non dobbiamo sempre pensare che per i profeti ci siano sempre stati fenomeni estatici particolari. Dio si rivela attraverso le esperienze umane comuni, dando una luce interiore che permette di comprenderle come segni della sua azione.

L’esperienza profetica è ripetibile anche da noi cristiani chiamati ad essere tutti un popolo profetico. Il profeta non è un sognatore né un mago; non è dotato di una visione del futuro nei suoi dettagli; è un uomo e una donna di fede che si lascia guidare da Dio sa leggere nel presente lo srotolarsi del piano divino. Questo non significa che gli avvenimenti belli e brutti che avvengono sono decisi e voluti da Dio, ma che nella nostra storia è comunque rintracciabile il “filo rosso” della vita che porta avanti la storia e prepara il futuro; il “filo rosso” della fedeltà di Dio.

Profeta della giustizia

La metà del secolo VIII, quando Amos esercita il suo ministero, è un tempo di grande euforia economica, turbata però da un gravissimo malessere sociale e religioso. La sperequazione fra il lusso di alcuni (gente arricchita attraverso i commerci e altre situazioni fortunate) e la povertà dei contadini è rivoltante. Le esemplificazioni di Amos sono rapide ed efficacissime. Vi sono case lussuose con mobili pregiati ricoperti di avorio: alcuni hanno case d'inverno e case d'estate, mentre altri non hanno neppure un mantello con cui coprirsi. Gli usurai costringono il povero a impegnare persino la propria persona. Per delle colpe ridicole i poveri vengono ridotti in schiavitù (Am 2,6; 8,6). I deboli sono oppressi (4,1; cfr. 2,7; 8,4), calpestati (8,4), umiliati (5,12).
Al tempo di Amos lo Stato impone una tassa per ogni villaggio. Tocca poi all'assemblea del villaggio ripartire la somma per ciascuna famiglia. E qui i ricchi - agricoltori e commercianti - fanno alto e basso: sovraccaricano i piccoli agricoltori senza che questi possano difendersi. L'amministrazione della giustizia è in mano a magistrati legati alla classe dominante: il povero ha sempre torto.
È vero che dalla parte del povero c'è la legge di Dio, ma coloro che la leggono e la spiegano: vivono tranquilli nel loro benessere, troppo deboli per condannare i ricchi che affollano il tempio e offrono vittime abbondanti.
Vista la situazione religiosa e sociale del suo tempo, il tema più ostinatamente ripetuto nel libro di Amos è la minaccia del giudizio: un giudizio incombente e meritato. Vengono adoperati verbi all'indicativo, questo significa che il giudizio è presentato come un fatto, come una certezza, non come un'ipotesi. Alcune espressioni hanno addirittura il tono dell’inevitabilità: «Non gli perdonerò più» (Am 7, 8; cf 7, 1- 8, 9). Dio ha pazientato e ha perdonato, ma ora non perdona più:

Vidi il Signore che stava presso l'altare e mi diceva:
«Percuoti il capitello
e siano scossi gli architravi,
spezza la testa di tutti
e io ucciderò il resto con la spada;
nessuno di essi riuscirà a fuggire,
nessuno di essi scamperà.
Anche se penetrano negli inferi,
di là li strapperà la mia mano;
se salgono al cielo, di là li tirerò giù;
se si nascondono in vetta al Carmelo,
di là li scoverò e li prenderò;
se si occultano al mio sguardo in fondo al mare,
là comanderò al serpente di morderli;
se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici,
là comanderò alla spada di ucciderli.
Io volgerò gli occhi su di loro
per il male e non per il bene.
(9, 1-4)

Dunque, rovina e distruzione pare proprio una reale possibilità e questo in contrasto con chi diceva : «La rovina non giungerà fino a noi» (9, 10). È più che una possibilità: se si continua così, la distruzione è certa.

Tuttavia non mancano spiragli aperti sul futuro. Il messaggio di Amos non è privo di speranza, come mostra, anzitutto, la stessa struttura del libro: inizia con la minaccia ma finisce con la promessa. E tra i molti verbi all’indicativo che presentano il giudizio come un fatto, non mancano alcuni imperativi che mostrano come la situazione non sia irreversibile: se Israele si converte, la vita è di nuovo possibile: «Cercate me e vivrete!» (5, 4) . Lo stesso senso è suggerito dal ritornello: «Ma non siete ritornati a me» (cf 4, 6-11) .

Infine, c'è un passo che fa intravedere che la distruzione non sarà, in ogni caso, totale: Dio, anche quando castiga, non distrugge totalmente, ma purifica e inizia da capo (cfr. 9, 11-15). (→ teologia del Resto).

Tutto questo dimostra che, se il giudizio è il tema più ripetuto, non è però quello centrale. Lo scopo è il «ritorno al Signore»: sia la minaccia sia la promessa sono funzionali a questo ritorno.

Contro le nazioni

Amos ha parole di condanna sia per Israele sia per le nazioni. A riguardo delle nazioni, però, è interessante che i motivi del giudizio di condanna non sono per il fatto che non praticano la religione di Israele e neppure perché combattono Israele, ma più semplicemente perché commettono delitti contro l’uomo. Il profeta non ha come mira convertire i popoli alla religione di Israele, ma all’uomo. Prendere come unità di misura l'uomo, come fa Amos, significa fare un discorso religioso e insieme laico, disinteressato e universale. Inoltre è significativo che lo sguardo del profeta non si chiuda su Israele: Dio si interessa anche agli altri popoli. Ma è altrettanto significativo – se non per noi più importante - che la condanna non sia solo contro gli altri popoli, ma ancor più contro Israele: il discorso tende verso l'interno.

Contro Giuda e Israele

A Giuda il profeta Amos rimprovera tre peccati: il disprezzo della Torah, la disobbedienza ai decreti di Dio, l'adorazione degli idoli, ossia la menzogna della vita (2, 4). Come si vede, la motivazione è qui soprattutto religiosa. Un tradimento di Dio che trascina con sé un tradimento dell'uomo. La radice di ogni male è l'abbandono di Dio, un abbandono che si attua nel cuore di ciascuno.

L'oracolo contro Israele (2, 6-15) è il più dettagliato, ed è messo per ultimo come vertice della serie. La sequenza delle colpe è estremamente interessante:

Così dice il Signore:
«Per tre misfatti d'Israele e per quattro non revocerò il mio decreto dicondanna, perché...

  1. Ingiustizia e l'avidità nei rapporti economico-sociali e nell'amministrazione della giustizia

hanno venduto il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali, essi che calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri e fanno deviare il cammino dei miseri,

  1. Perdita del senso morale

e padre e figlio vanno dalla stessa ragazza, profanando così il mio santo nome.

  1. Pratica cultuale falsa e idolatria

Su vesti prese come pegno si stendono presso ogni altare e bevono il vino confiscato come ammenda nella casa del loro Dio. (Am 2, 6-8)

La traiettoria è quanto mai interessante: dall'ingiustizia all'idolatria, dall'oppressione dell'uomo al disonore di Dio.

L'avidità acceca: genera oppressione e crea, o favorisce, un falso rapporto con Dio.

Vera e falsa ricerca di Dio

Gli Israeliti vivono in una falsa sicurezza religiosa, in un'illusione, e ripetono: «Non si avvicinerà, non giungerà fino a noi la sventura» (Am 9, 10). Questa illusione religiosa ha due radici: un errata concezione dell'alleanza e una sopravvalutazione del culto.

Un'errata concezione dell'alleanza

L'alleanza è intesa come privilegio e sicurezza, come qualcosa di cui Dio non può fare a meno, anziché come un'esigenza di maggiore fedeltà. Dio invece può anche fare a meno di Israele, e non lo tratta diversamente dagli altri popoli:

«Non siete voi per me come gli Etiopi,
figli d'Israele?
Oracolo del Signore.
Non sono io che ho fatto uscire Israele dal paese d'Egitto,
i Filistei da Caftor e gli Aramei da Kir?»
(Am 9, 7).

Una sopravvalutazione del culto

A sua volta il culto è abbondante e il suo svolgimento è impeccabile, e questo piace molto agli Israeliti («Piace a voi»), li illude, ma non piace a Dio (4, 4-5). Dio non sa che farsene di queste cose (5, 21-24).

Amos non contrappone a un culto un altro culto, a un rito un altro rito. Non è un riformatore liturgico. Neppure mette in contraddizione il culto e la vita, e non pone un'alternativa fra culto e giustizia, religione e politica. Non dice: «Smettete di cercare Dio e praticate la giustizia». Bensì: «Cercate Dio nel modo giusto, cioè praticando la giustizia».

Possiamo individuare il centro e il vertice dell’intero messaggio di Amos in questo passo:

«Cercate me e vivrete!
Non cercate Betel,
non andate a Gàlgala,
non passate a Bersabea,
perché Gàlgala andrà certo in esilio
e Betel sarà ridotta al nulla».
Cercate il Signore e vivrete,
[...]
Cercate il bene e non il male,
se volete vivere,
e solo così il Signore, Dio degli eserciti,
sarà con voi, come voi dite.
Odiate il male e amate il bene
e ristabilite nei tribunali il diritto».
(Am 5, 4-6.14-15)

Il verbo daras (cercare), compare quattro volte. In un altro passo (8,12) troviamo il verbo bâqash (cercare intensamente) con oggetto la «parola del Signore».

Amos, mette in contrapposizione non il cercare il Signore e il cercare un dio pagano (questo è ovvio), ma un modo vero e un modo falso di cercare il Signore.

Capiamo la forza polemica di queste parole se ricordiamo l’importanza che i tre santuari avevano. Betel, Galgala e Bersabea erano i tre santuari della nazione. Il profeta - contro la convinzione generale - sostiene che i pellegrinaggi a questi santuari non danno la vita, non salvano il popolo. Cercare in essi sicurezza è illusione. Essi stessi saranno distrutti: «Galgala andrà in esilio e Betel sarà ridotta al nulla».

Alla ricerca di Dio che avveniva nei santuari, Amos oppone una serie di imperativi che definiscono la vera ricerca: cercate me, cercate il Signore, cercate il bene, odiate il male e amate il bene, praticate il diritto nei tribunali.

La ricerca di Dio non è un puro cammino cultuale, né una ricerca teorica, intellettuale e speculativa, né una ricerca mistica, chiusa nell'intimo, bensì una ricerca pratica, nell'amore concreto alla giustizia e al diritto.

C'è poi un secondo aspetto da considerare: la vera ricerca è desiderio di Dio, non di altro. Una ricerca disinteressata: cercate me. La ricerca di Dio non è piegabile ad altri fini. È fine a se stessa, è il punto a cui tutto il resto deve tendere.


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