La fede nel tempo dell'incertezza - Catechesi Quaresima 2021

Elia

Il Signore è il mio Dio

Quasi mille anni prima di Cristo (siamo nell’età archeologica del ferro), dopo la morte del re Salomone, si verificò un dramma per gli ebrei: la divisione in due regni. Roboamo, figlio di Salomone, regnava su Giuda, nel Sud, e Geroboamo diventa re su Israele, al Nord (cfr. 1Re 12). Nel regno di Israele si viene ben presto a creare una situazione di grave contaminazione con i culti pagani. L’apice dell’idolatria viene raggiunto sotto il regno di Acab (874 - 853 a.C.), il quale sposa Gezabele, figlia del re di Tiro e Sidone, e importa il culto a Baal, erigendo anche un tempio dedicato a questa divinità. Questo idolo non andò a sostituire il Signore, si ebbe però la pretesa di affiancarlo. In questo modo, il popolo pretendeva di seguire Dio, invisibile e misterioso, e tuttavia cercava sicurezza anche in un dio comprensibile e prevedibile, da cui pensava di ottenere fecondità e prosperità in cambio di sacrifici.

È in questo contesto che nel racconto biblico, irrompe letteralmente il profeta Elia. Il suo nome vuol dire «il mio Dio (EL) è il Signore (Yah)» ed interviene nella storia di Israele senza nessuna preparazione o riferimento familiare, non si menziona neppure il nome del padre che invece accompagna tanti altri personaggi. Questa assenza è significativa: il profeta è una figura carismatica, non dinastica, a differenza del re e del sacerdote; è suscitato da Dio, e il suo passato non è determinante. Elia, dunque compare all’improvviso come all’improvviso e in modo imprevedibile scomparirà: esiste solo per il suo rapporto con Dio di cui porta il nome. Servo della parola di Dio, è abitato dal mistero del Dio di cui porta il nome; profeta dell’invisibile, ha occhi che vanno al di là dell’apparenza. E nella sua situazione storica, egli vede la realtà del peccato di cui Israele è succube e pronuncia un decreto di siccità:

Elia, il Tisbita, uno di quelli che si erano stabiliti in Gàlaad, disse ad Acab: «Per la vita del Signore, Dio d'Israele, alla cui presenza io sto, in questi anni non ci sarà né rugiada né pioggia, se non quando lo comanderò io». (1Re 17,1)

Le parole sono di Elia, ma dicono la Parola di Dio. È un annuncio di siccità totale, quindi di carestia e morte per il bestiame e per il popolo. La chiusura del cielo serve a rivelare che il peccato del popolo ormai ha raggiunto il suo culmine. Tuttavia questo “castigo” è per la conversione e la salvezza. Israele deve convincersi che non è Baal a dare la pioggia, ma il Signore, quel Signore che ha fatto uscire Israele dell’Egitto, che lo ha portato nel deserto e lì lo ha dissetato con l’acqua sgorgata dalla roccia, e poi gli ha donato la terra dove l’acqua scende gratuitamente dal cielo (cfr. Dt 11,10ss.).

Per lasciarsi salvare, infatti, bisogna diventare consapevoli di averne bisogno, Il perdono, per essere efficace, suppone che il peccatore si riconosca tale, capisca la gravità del male commesso e desideri esserne liberato. A questo servono i profeti, a questo serve la loro predicazione: far prendere coscienza del peccato, così che, capendo e sperimentando che “fare il male fa male”, ci si lasci perdonare. Il profeta è dunque mandato a rivelare l’inganno del peccato perché finisca.

Una missione apparentemente contradditoria

A lui fu rivolta questa parola del Signore: «Vattene di qui, dirigiti verso oriente; nasconditi presso il torrente Cherìt, che è a oriente del Giordano. Berrai dal torrente e i corvi per mio comando ti porteranno da mangiare». Egli partì e fece secondo la parola del Signore; andò a stabilirsi accanto al torrente Cherìt, che è a oriente del Giordano. I corvi gli portavano pane e carne al mattino, e pane e carne alla sera; egli beveva dal torrente. (1Re 17,2-6)

Dio manda Elia dal popolo per riportarlo alla fede, ma gli ordina di nascondersi. Pare una contraddizione: il profeta ha il compito di rivelare ad Israele la parola di Dio, ma da quella stessa Parola viene invece portato lontano e nascosto, nel deserto.

È come se Elia dovesse ripercorrere l’esperienza dell’Esodo, vivendo nel deserto e ricevendo cibo e acqua da Dio.

Lì, nel deserto, Elia vive quello che il popolo di Israele si sta rifiutando di vivere. È un torrente che disseta Elia (ma c’è la siccità), e sono i corvi che lo fanno mangiare (ma sono animali impuri: cfr. Lv 11,15): è la vita che viene dall’impensabile, lì dove nessuno se lo aspetterebbe.

L’incontro con la vedova di Sarepta

Dopo alcuni giorni il torrente si seccò, perché non era piovuto sulla terra. Fu rivolta a lui la parola del Signore: «Àlzati, va' a Sarepta di Sidone; ecco, io là ho dato ordine a una vedova di sostenerti». Egli si alzò e andò a Sarepta. (1Re 17, 7-10)

Ma dopo alcuni giorni, arriva quella che potrebbe essere considerata una prima crisi del profeta. Il suo servizio alla Parola di Dio lo porta a confrontarsi con alcune conseguenze del suo annuncio. Ha proclamato la morte per il popolo peccatore, ma ora potrebbe morire anche lui. Per uscire dalla crisi serve fede e serve l’obbedienza. Sarepta era una città del territorio fenicio, la patria della regina Gezabele. Se prima il profeta stava nascosto, ora invece deve uscire allo scoperto e andare in terra nemicaCome prima nel deserto, con i corvi, ancora il nutrimento avverrà in modo impensabile attraverso una vedova, dunque una persona povera ed indifesa, e per giunta fenicia.

«Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: «Prendimi un po' d'acqua in un vaso, perché io possa bere». Mentre quella andava a prenderla, le gridò: «Per favore, prendimi anche un pezzo di pane». Quella rispose: «Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo». Elia le disse: «Non temere; va' a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d'Israele: «La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra»». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l'orcio dell'olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia» (1Re 17, 7b-16)

Quando Elia arriva a Sarepta vede la donna che sta raccogliendo della legna per il fuoco, se ne deduce che ci sia cibo, inoltre chiede dell’acqua e l’acqua c’è, perché la donna, dopo che Elia gliene ha domandato, sta andando a prenderla. Ma anche questa speranza si infrange in fretta, quando Elia domanda del pane e scopre che la legna che stava raccogliendo la donna era per preparare l’ultimo pasto prima di morire, lei e il figlio.

Anche da questa donna viene un grande insegnamento.

Ci sarebbe da soffermarsi a lungo su ciò che avviene a Sarepta di Sidone, mettiamo solamente in evidenza due insegnamenti sulla fede in tempo di incertezza, che vengono da quella povera vedova fenicia.

  • Colpisce la gestualità quotidiana di quella donna che continua anche davanti alla morte, quel rispetto e quell’obbedienza alla vita che è dei piccoli e i poveri. Nel testo, viene ripetuto due volte che la donna stava raccogliendo la legna (vv. 10.12), è una ripetizione significativa. Perché nella disperazione, quando tutto oramai sembra finito, la tentazione è quella di buttare anche quel poco che resta, e così morire subito; a che serve la fatica di raccogliere altra legna se dopo quella focaccia non c’è altro e si deve comunque morire? Tanto vale aspettare la morte e basta. Ma i poveri conoscono il valore della vita e le obbediscono fino alla fine.

  • Davanti alla situazione disperata della vedova, la richiesta di Elia sembra spietata: «però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio». Elia aggiunge però una promessa di vita: «La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra». La donna deve decidere. Obbedire alla parola del profeta vuol dire fidarsi di ciò che Elia dice. Una decisione non facile, a ancora di più per la vedova che non è neppure di Israele. Ma la donna accetta, davanti alla morte trova la forza di scegliere la scommessa della vita. Ricorda la vedova con le sue due monetine di offerta per il tesoro del tempio, condivide il poco che ha (cfr. Lc 21, 1-4).

E Dio manterrà la sua promessa: ci saranno farina e olio nella casa della donna di Sarepta finché il Signore non farà piovere. Mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni» (1Re 17, 15), ciò che è condiviso si moltiplica.

È Dio che da la vita. La sua presenza si rivela nel quotidiano: quel che serve giorno per giorno, come la manna nel deserto da attendere, come il «pane quotidiano».

Il testo di 1Re narra anche dell'imprevista e drammatica morte del figlio della vedova. Un evento tragico perché parla della morte incomprensibile di un bambino. Questa è una prova e “occasione” di crisi per Elia, perché sembra smentire la promessa che Dio aveva rivolto alla donna. A che servono, infatti farina ed olio se poi il ragazzo si ammala e cessa di vivere? È questo certamente un momento di lotta di Elia, non con Dio ma nella fede. Compiendo un atto decisivo di fede in Dio, ottiene la risurrezione del ragazzo.

Il fuoco dal cielo – La sfida del Carmelo

Dopo molti giorni la parola del Signore fu rivolta a Elia, nell'anno terzo: «Va' a presentarti ad Acab e io manderò la pioggia sulla faccia della terra». Elia andò a presentarsi ad Acab. (1Re 18, 1-2).

Dio dimostra la sua infinita pazienza, il Signore è capace di aspettare anche a lungo. Ma nulla è cambiato, Israele continua a peccare. Il re accusa Elia di mettere sottosopra il regno d'Israele («mandare in rovina Israele», 1Re 18, 17). In realtà Acab difende la ragion di Stato, mentre Elia incarna le esigenze della parola di Dio. Elia ritorce energicamente l'accusa: dannoso al regno è piuttosto Acab con la sua famiglia di idolatri. Quindi lancia una sfida al re, chiedendogli di convocare tutto Israele sul monte Carmelo, «assieme ai quattrocentocinquanta profeti di Baal e i quattrocento profeti di Asera che mangiano alla tavola di Gezabele».

Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: «Fino a quando salterete da una parte all'altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!». Il popolo non gli rispose nulla. Elia disse ancora al popolo: «Io sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocentocinquanta. Ci vengano dati due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l'altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Invocherete il nome del vostro dio e io invocherò il nome del Signore. Il dio che risponderà col fuoco è Dio!». Tutto il popolo rispose: «La proposta è buona!».
Elia disse ai profeti di Baal: «Sceglietevi il giovenco e fate voi per primi, perché voi siete più numerosi. Invocate il nome del vostro dio, ma senza appiccare il fuoco». Quelli presero il giovenco che spettava loro, lo prepararono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: «Baal, rispondici!». Ma non vi fu voce, né chi rispondesse. Quelli continuavano a saltellare da una parte all'altra intorno all'altare che avevano eretto. Venuto mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate a gran voce, perché è un dio! È occupato, è in affari o è in viaggio; forse dorme, ma si sveglierà». Gridarono a gran voce e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue. Passato il mezzogiorno, quelli ancora agirono da profeti fino al momento dell'offerta del sacrificio, ma non vi fu né voce né risposta né un segno d'attenzione.
Elia disse a tutto il popolo: «Avvicinatevi a me!». Tutto il popolo si avvicinò a lui e riparò l'altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei figli di Giacobbe, al quale era stata rivolta questa parola del Signore: «Israele sarà il tuo nome». Con le pietre eresse un altare nel nome del Signore; scavò intorno all'altare un canaletto, della capacità di circa due sea di seme. Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. Quindi disse: «Riempite quattro anfore d'acqua e versatele sull'olocausto e sulla legna!». Ed essi lo fecero. Egli disse: «Fatelo di nuovo!». Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: «Fatelo per la terza volta!». Lo fecero per la terza volta. L'acqua scorreva intorno all'altare; anche il canaletto si riempì d'acqua. Al momento dell'offerta del sacrificio si avvicinò il profeta Elia e disse: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e d'Israele, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose sulla tua parola. Rispondimi, Signore, rispondimi, e questo popolo sappia che tu, o Signore, sei Dio e che converti il loro cuore!». Cadde il fuoco del Signore e consumò l'olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l'acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!». Elia disse loro: «Afferrate i profeti di Baal; non ne scappi neppure uno!». Li afferrarono. Elia li fece scendere al torrente Kison, ove li ammazzò. (1Re 18, 20-40).

È venuto il momento, per Elia, di porre Israele davanti ad una scelta esplicita. Il popolo deve decidersi a prendere posizione: «Fino a quando salterete da una parte all'altra? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!». Quel «saltare da una parte all’altra», descrive bene la situazione in cui si trova Israele. È quell’ambiguità in cui il popolo continua a permanere, il tentativo illusorio di tenere insieme YHWH e Baal (sincretismo).

Ma ora si pone la necessità di scegliere. Dio può essere solamente uno e unico; ogni tentativo di mettergli accanto un altro dio lo nega come Dio, perché lo relativizza, lo nega come assoluto. Si pensi al primo comandamento del Decalogo, «non avrai altro dèi davanti a me». Ma il popolo non risponde nulla.

Il confronto consiste in una vera e propria sfida tra Elia e i sacerdoti di Baal. Quei sacerdoti da una parte e lui dall'altra innalzeranno altari, con sopra l'animale sacrificato e la legna, ma senza accendere il fuoco. Poi ciascuno farà le sue preghiere: «Voi invocherete il nome del vostro dio», dice agli uomini di Baal, «e io invocherò il nome del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!».

I sacerdoti di Baal invocano vanamente il loro dio dalla mattina alla sera. Eia li deride: «Gridate con voce più alta, perché certo egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà». Ma il fuoco non si accende, nemmeno quando i sacerdoti cominciamo a procurarsi ferite con spade e lance. Quando invece Elia chiede al Signore di accendere la legna sul suo altare, «cadde il fuoco del Signore e consumò l'olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l'acqua del canaletto. A tal vista, tutto il popolo cadde con la faccia a terra e disse: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!».

Un elemento importante è rappresentato dalla contrapposizione tra Elia e i profeti di Baal: oltre al fatto che lui è uno e gli altri quattrocentocinquanta, è soprattutto evidenziato un forte contrasto di voci e di gesti.

Per quello che riguarda le voci e la parola, si nota subito che l’unico a parlare veramente è Elia; è lui il vero profeta, colui che con la sua parola interpreta la realtà e ne svela il senso. Gli altri non parlano, ma gridano e Baal mostra la sua inesistenza tacendo. Il Signore, infine, la cu voce è impercettibile, parla attraverso il profeta e risponde attraverso il fuoco; ed è la parola del profeta che si fa interprete degli eventi e dei segni; senza il profeta neppure il fuoco sarebbe comprensibile.

Anche per quanto riguarda i gesti. I profeti di Baal si agitano, danzano, saltano, si fanno incisioni sul corpo. Partono da loro stessi per arrivare a dio, ricorrendo a se stessi per ricorrere a lui. Si indica così un atteggiamento di chiusura su di sé, autoreferenziale. Elia invece costruisce un altare e prega: è l’apertura all’altro, il non fare affidamento alle proprie capacità, ma sulla realtà divina. Significative sono le dodici pietre erette per costruire l’altare, che rappresentano le dodici tribù dei figli di Giacobbe, e ricordano a Dio la sua storia di coinvolgimento con il popolo, e fanno appello alla fedeltà del Signore, e alla sua storiadi salvezza.

La conclusione della sfida è forse un po’ “difficile” per noi. Elia fa uccidere tutti i quattrocentocinquanta profeti di Baal. Questa finale rimane comunque sconcertante. Dio non aveva comandato lo sterminio dei profeti di Baal: è un’azione intrapresa in proprio da Elia.

Dobbiamo considerare anche questo una “visualizzazione” della vittoria del Signore. Sappiamo che Dio non vuole sacrifici e non vuole la morte del peccatore.

L'altra faccia del profeta

Ma la tradizione ci presenta anche l'altra faccia del profeta. Quando la regina Gezabele lo minaccia di morte dopo lo sterminio dei profeti di Baal, egli fugge nel deserto, impaurito e scoraggiato, dubitando della sua missione.

Questa fuga manifesta tutta la sua solitudine: se ne va lontano, a Sud, nel deserto. Non c’è evidentemente nessuno a cui egli pensa possa rivolgersi per un aiuto. Elia è solo. E fugge verso Bersabea, lì lascia il suo servo e poi si incammina nel deserto. Il profeta è solo nell’immensa solitudine del deserto, lì dove sembra che la vita sia impossibile. L’angoscia di morire è tale, che si desidera morire, perché si ha paura della morte e del destino d'Israele, e augurandosi la morte: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri» (1 Re 19, 4).

Non è solo la paura, al v. 3 «impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi», in ebraico le consonanti della forma verbale “avere paura”, sono le medesime di “vide” (cambiano solo le vocali). Potremmo dire che Elia ha paura e fugge perché “ha visto”: ha visto il fallimento, l’apparente futilità del suo operar, l’inutilità di tanto combattere.

Poi, Elia si lascia andare al sonno, che è un modo di significare a morte, di esprimere la volontà di lasciarsi morire. Vengono in mente il sonno profondo di Giona nel fondo della nave durante la tempesta, da cui viene scosso con l’invito di rivolgersi al Signore (Gio 1, 4-6); oppure, il sonno a cui si abbandonano i discepoli al Getsemani, sopraffatti dall’angoscia. Anche Elia, in fuga da Gezabele, con il suo sonno cerca di fuggire dalla realtà e dall'insopportabile difficoltà della propri missione.

Ma Dio risponde con l’intervento dell’angelo, perché Elia riprenda a vivere (è il profeta a fare ora l’esperienza della salvezza). Il testo sottolinea che la focaccia che gli si fa giungere è già cotta: qualcuno ha pensato ad Elia e si è preso cura di lui mentre egli non voleva più pensare a se stesso e si lasciava morire. La nostra vita è talmente preziosa agli occhi di Dio, da fargli cocere il cibo per noi.

Ma il cibo dell’angelo non è solo per sopravvivere, serve invece per ricominciare a camminare. Finora, il vagare di Elia nel deserto era una fuga. Ora, si apre per lui un cammino che ha una meta: il monte santo di Dio. L’Oreb che è un altro nome per designare il Sinai. È un ritorno alle proprie radici, al Sinai di Mosè. Un pellegrinaggio verso il luogo in cui Dio si è rivelato ai padri.

«Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita». Gli disse: «Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore». Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: «Che cosa fai qui, Elia?». Egli rispose: «Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita. Il Signore gli disse: «Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto. Se uno scamperà alla spada di Cazaèl, lo farà morire Ieu; se uno scamperà alla spada di Ieu, lo farà morire Eliseo. Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l'hanno baciato». (1Re 19, 9-18)

La domanda che Dio rivolge a Elia («Che cosa fai qui, Elia?») serve a fargli esplicitare il senso del suo cammino e della sua ricerca. La risposta è data per contrapposizioni: io – dice Elia -sono pieno di zelo (cioè di amore esclusivo, geloso) per il Signore, gli altri sono infedeli e peccatori; io sono solo (ancora la sensazione del fallimento che riemerge), gli altri sono numerosi e assassini. E Dio, che è l’oggetto del suo zelo, sembra assente: cosa fa il Signore, dove è, mentre il suo inviato è in pericolo?

E Dio si rivela: si verificano fenomeni che richiamano la teofania del Sinai, al tempo dell’Esodo, e anche le raffigurazioni di Baal, con il suo rapporto con i grandi fenomeni atmosferici. Ma Dio lì non c’è. Invece ecco «il sussurro di una brezza leggera», o meglio, più letteralmente, «una voce di silenzio sottile, impalpabile», quasi a significare la debolezza e l'umiltà della presenza divina. Ed Elia riconosce la presenza del Signore.

Elia si copre il volto con il mantello, e si ferma all’ingresso della caverna. Non la tempesta, il terremoto e il fuoco, fanno paura, ma quel silenzio che rivela Dio nella piccolezza; un Dio misterioso, mai catalogabile, mai uguale a se stesso. E neppure segni della sua presenza possono esser gli stessi, ma sono invece sempre inattesi, sempre diversi da quelli conosciuti. Il Dio ignoto è il Dio sempre nuovo. Ed è il Dio della libertà: i segni della sua presenza non sono più terrificanti, lasciano l’uomo libero; sono appello alla fede, e il profeta deve essere capace di discernerli, riconoscendo nell'inatteso, il passaggio del Signore, in ascolto della voce del silenzio.

Poi Dio si rivolge di nuovo a Elia con la domanda iniziale «Che fai qui Elia?», Elia ripete la medesima risposta di prima ma questa volta il Signore replica con un nuovo invio: «Su, ritorna sui tuoi passi... ». C’è una nuova missione Ci sarà un nuovo re a Damasco, un nuovo re su Israele, e anche un discepolo che proseguirà l’operato di Elia. È il nuovo progetto di Dio, che sotto un’apparente debolezza, mostra la sua vera presenza che cambia anche il corso delle vicende umane.

Non è dunque vero che il profeta è solo, come invece pensava ( «Gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza ... sono rimasto solo»: v. 15); e non è vero che il destino d'Israele è ormai senza prospettiva. Dio stesso gli indica le vie della continuità: « Ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto» (v. 16), gli dice il Signore. E prosegue: «Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal» (v. 18). La profezia, dunque, continua e la storia di Israele rimane aperta. Ora il profeta sa che Dio è il Signore, e non il re e neppure Gezabele. E non governa solo la storia di Israele ma anche quella del mondo intero


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