È necessario cominciare con il dire che dialogo è una parola chiave che ci permette di dire chi è Dio. Attenzione, chi egli è non cosa egli fa che è solo una conseguenza della sua essenza.
Il Padre si “spoglia” di tutto ciò che Egli è affinché il Figlio sia – esista – e lo sia – abbia le sue proprietà e caratteristiche. E questo avviene in un dialogo. Ossia in una relazione che è di amore tanto profonda, tanto coinvolgente, così totalizzante che fa “esistere” il Figlio. Quanto avviene tra Padre e Figlio avviene poi tra Figlio e Padre ossia il Figlio restituisce al Padre se stesso, ed ecco che questa relazione così forte determina l’esistenza dello Spirito che è, appunto, il darsi del Figlio al Padre e del Figlio al mondo, al creato, all’uomo.
Il punto di partenza, per stare con i piedi per terra dopo qualche svolazzamento teologico, è il LOGOS che si è fatto DIÁ, il DIALOGO appunto: Gesù. LOGOS alla greca – dove è nato come termine filosofico - significa ragione (non solo intelligenza, ma intelligenza che agisce in relazione). Lo stesso termine, quando è usato nella Bibbia assume il significato di qualche cosa che crea (si pensi al “e Dio disse” del libro della Genesi che scandisce la creazione di tutte le cose – cfr. Gn 1, 1-31). Ragione dunque = parla/rivela e Creatore = ci rende nuovi, del tutto nuovi (cfr. l’episodio di Nicodemo in Gv 3, 1-6). Una Parola, dunque, che si fa carne, che ci viene incontro, che non è nostra mia ci è data, quindi che ci garantisce un’oggettività e nei confronti della quale siamo tutti in ascolto, tutti discepoli e nessun maestro.
Il dialogo nasce, dunque, da un prima riconosciuto. Innanzitutto un prima di Dio e poi un prima fatto di uomini e donne. Il nostro valore è in Dio stesso. Dunque io valgo nella misura in cui traspare in me questo marchio di fabbrica.
La parola chiave per un dialogo degno di tale nome è umiltà. Umiltà nel riconoscere l’altro come portatore di valori, riconoscere l’altro come un amico e non come un potenziale nemico.
Il dialogo deve stabilire una relazione forte, salda, duratura: però mai obbligatoria. Ogni dialogo deve lasciare aperta la porta sul retro, deve lasciare la possibilità all’altro di andare via, in ogni momento. L’altro deve sapere in ogni istante che, anche andandosene, è ugualmente amato e stimato.
Il Tempo è una delle chiavi di volta del dialogo, sembra che non ve ne sia mai abbastanza, sembra che esso basti a malapena per noi. Avere tempo e donare tempo – ricordava papa Benedetto XVI– è questo per noi un modo molto concreto per imparare a donare noi stessi, a perdersi per trovare se stessi. Una delle maggiori cause di fallimento del dialogo è proprio il tempo: non tanto l’uso che ne facciamo, ma piuttosto l’indicazione che diamo all’altro del tempo che intendiamo dedicargli.
L’altro grande chiave di volta è la gradualità. Essa ha come principio che l’altro non sono io, eppure io sono l’altro. In ogni caso, se un oggetto di conversazione, di dialogo, non è interessante, colui che parla lo è sempre.
Mandato e missione «Il dialogo suppone uno stato d’animo in noi: lo stato d’animo di chi sente dentro di sé il peso del mandato apostolico, di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso». (Paolo VI).
Il cristiano deve sentire tutto la bellezza ed anche il peso dell’essere parte di un grande organismo che dipende anche da lui. Le persone intelligenti e più preparate? Ma oggi, adesso, qui non ci sono, ci sei tu, Cristo ha chiesto a te di essere adesso la sua voce!
La verità,“La sollecitazione di accostare i fratelli non deve tradursi in una attenuazione, in una diminuzione della verità. Il nostro dialogo non può essere una debolezza rispetto all’impegno verso la nostra fede. […] Solo chi vive in pienezza la vocazione cristiana può essere immunizzato dal contagio di errori con cui viene a contatto ”. (Paolo VI).
Il silenzio, scrive Jean Guitton: “Ogni esistenza si svolge su un fondo di silenzio. Ogni parola presuppone un silenzio più profondo della parola. Ogni cosa detta presuppone molte cose non dette. Ed è proprio la moltitudine di queste piccole cose pensate e non dette, di queste sofferenze sofferte e non espresse, di queste confidenze che muoiono sulle labbra, a costituire il mistero dell’essere”. Anche il silenzio fa parte del dialogo, forse di più di quanto non si pensi.
Il modello di dialogo offerto da san Francesco e dalla prima fraternità francescana (*)
Il Signore dette a me, frate Francesco, d'incominciare a fare penitenza così: quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi e il Signore stesso mi condusse tra loro e feci misericordia con essi. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d'animo e di corpo. E di poi, stetti un poco e uscii dal mondo.
«feci misericordia con essi», nell’originale latino, lascia spazio anche ad una idea di collaborazione, per cui non sarebbe solo Francesco a fare gesti di misericordia, ma anche quei lebbrosi, in un fattivo dialogo tra essi e Francesco. In ogni caso, quell’incontro e l’inizio di un dialogo e di una relazione col prossimo nella quale Francesco scopre il rivelarsi di Dio.
«l’amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo». La relazione, dunque, non è neutra: può essere amara o dolce. L’impressione iniziale anche per noi può essere l’amarezza: ma nella misericordia ogni dialogo può diventare fonte di dolcezza. Questo diventa possibile perché il nostro dialogo con l’altro e all’interno di un’altra relazione più grande: il rapporto col Signore, che è il protagonista vero di questo testo, visto che il soggetto grammaticale e il Signore: «il Signore diede a me… il Signore mi condusse tra i lebbrosi».
Il servo di Dio non può conoscere quanta pazienza e umiltà abbia in sé finché gli si dà soddisfazione. Quando invece verrà il tempo in cui quelli che gli dovrebbero dare soddisfazione gli si mettono contro, quanta pazienza e umiltà ha in questo caso, tanta ne ha e non più.
Non sarà il contrasto o l’offesa altrui a impedire il dialogo pacifico. La pace può fiorire anche nella difficolta.
Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Ci sono molti che, applicandosi insistentemente a preghiere e occupazioni, fanno molte astinenze e mortificazioni corporali, ma per una sola parola che sembri ingiuria verso la loro persona, o per qualche cosa che venga loro tolta, scandalizzati, tosto si irritano. Questi non sono poveri in spirito, poiché chi e veramente povero in spirito odia sé stesso e ama quelli che lo percuotono nella guancia.
La povertà di spirito si misura sul dialogo con il prossimo che non fa quel che vorremmo, e non sul possesso di beni materiali (o sulle rinunce che decidiamo noi)
Al servo di Dio nessuna cosa deve dispiacere eccetto il peccato. E in qualunque modo una persona peccasse e, a motivo di tale peccato, il servo di Dio, non più guidato dalla carità, ne prendesse turbamento e ira, accumula per sé come un tesoro quella colpa. Quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Ed egli è beato perché, rendendo a Cesare quello che e di Cesare e a Dio quello che e di Dio, non gli rimane nulla per se.
L’ira e il turbamento sono segni di un atteggiamento di possesso e di dominio: Francesco dice che chi si adira «accumula per sé come un tesoro» il peccato dell’altro, usando una immagine di possesso. Al contrario, quel servo di Dio che non si adira né si turba per alcunché, davvero vive senza nulla di proprio. Questa e una buona definizione del vivere senza nulla di proprio.
Beato il servo, che non si ritiene migliore, quando viene lodato ed esaltato dagli uomini, di quando e ritenuto vile, semplice e spregevole, poiché quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più.
La radice di un rapporto equilibrato col prossimo sta nella centralità del rapporto con Dio: quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più. Possiamo suggerire la parola evangelica: “Dov’e il tuo tesoro, la sarà il tuo cuore”. Si tratta di capire che cosa mi interessa davvero, qual e il giudizio che mi preoccupa: quello della gente o quello di Dio? Se sono davvero convinto che quanto l'uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più, scompaiono tante paure nel dialogo con il prossimo. Da questa purificazione delle mie attese più profonde, nasce una nuova libertà, che nasce dal sapere che il mio vero valore sta nello sguardo di Dio, non in quello della gente.
Lo stesso [fra Leonardo] riferì che un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria degli Angeli, chiamò frate Leone e gli disse:«Frate Leone, scrivi». Questi rispose: «Eccomi, sono pronto». «Scrivi - disse - quale è la vera letizia». «Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell'Ordine, scrivi: non è vera letizia. Così pure che sono entrati nell'Ordine tutti i prelati d'Oltralpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia eil Re d'Inghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia». «Ma quale è la vera letizia?». «Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed e un inverno fangoso e cosi rigido che, all'estremità della tonaca, si formano dei ghiaccioli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: Chi è?. Io rispondo: Frate Francesco. E quegli dice: Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai. E poiché io insisto ancora, l'altro risponde: Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te. E io sempre resto davanti alla porta e dico: Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte. E quegli risponde: Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi la. Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui e la vera letizia e qui e la vera virtù e la salvezza dell'anima».
Il testo illustra un modello di rapporto fraterno molto conflittuale, che però nel finale del racconto ritrova una pace che, ancora una volta, e legata al sopportare la tribolazione. Tale atteggiamento e qui espresso in termini di “pazienza”, (“se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato”) nel rifiuto di ogni “turbamento”, che è rifiuto di appropriazione del fratello. Ancora una volta, con molto realismo, siamo di fronte a un dialogo che non è un idillio tra due persone gentili. Ma emerge che tale contrastato rapporto non è solo da tollerare, ma addirittura viene qualificato come vera letizia: il misterioso ribaltamento di valori, già sperimentato da Francesco nell’incontro coi lebbrosi, si realizza di nuovo.
Francesco nell’estate del 1219 si reco in Egitto, presso il campo crociato che assediava Damietta, e nonostante l’opposizione del Cardinale legato ottenne di recarsi presso il sultano Al-Malik Al-Kamil, con il quale poté avere uno o più colloqui. Il Sultano lo tratto con cortesia e poté tornare nel campo crociato, dal quale ritorno in Italia nell’estate del 1220. Sulla base di questi dati possiamo formulare qualche considerazione.
Francesco vide ribaltata quella che era la comune concezione dei Saraceni e del Sultano, concepiti come assetati del sangue dei cristiani. Probabilmente anche Francesco condivideva tali pregiudizi e si aspettava un diverso comportamento da coloro dai quali si era recato “come agnello in mezzo ai lupi”: ma i fatti smentirono tali pregiudizi e non esaudirono nemmeno la ricerca di martirio che lo muoveva. Il martirio presuppone un nemico che vuole uccidere: ma Francesco incontro un uomo che non lo volle uccidere, che anzi accetto di incontrarlo e lo tratto con umanità. Francesco ritorno da quell’incontro segnato dall’esperienza di un dialogo che aveva aperto canali di rispetto reciproco: egli aveva potuto constatare che il Sultano non era una belva feroce, ma un uomo che lo aveva ascoltato e trattato con rispetto. Da parte sua il Sultano, se rimando libero Francesco offrendogli anche i suoi doni, lo fece perché intuì la carica spirituale di quell’uomo di Dio, che non aveva avuto paura di sfidare la morte per testimoniare il Vangelo di pace.
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