L'Amore... non è invidioso

Nel testo originale, leggiamo οὐ ζηλοῖ (ou zēloi) che non dobbiamo confondere con lo zelo italiano; in latino si traduce con non aemulatur, riguarda quindi l'emulazione. È l'attrattiva verso qualcosa. Quando, in una relazione, questa attrattiva è verso l'altro, allora subentrano i rischi per la relazione. Si tenderà a vedere l'altro in funzione di sé stesso, si innescano dinamiche mosse da invidia e rivalità, il pretendere che l'altro rientri nei propri schemi che lo vogliono sempre inferiore a sé stesso. Cresce la competitività, si tende a non accettare le differenze e a non valutare come positive le ricchezze dell'altro.

In realtà, l'altro diventa nostro rivale perché non siamo contenti di noi stessi.

 

Amoris Laetitia n. 95-96

Guarendo l’invidia

95. Si rifiuta come contrario all’amore un atteggiamento espresso con il termine zelos (gelosia o invidia). Significa che nell’amore non c’è posto per il provare dispiacere a causa del bene dell’altro (cfr At 7,9; 17,5). L’invidia è una tristezza per il bene altrui che dimostra che non ci interessa la felicità degli altri, poiché siamo esclusivamente concentrati sul nostro benessere. Mentre l’amore ci fa uscire da noi stessi, l’invidia ci porta a centrarci sul nostro io. Il vero amore apprezza i successi degli altri, non li sente come una minaccia, e si libera del sapore amaro dell’invidia. Accetta il fatto che ognuno ha doni differenti e strade diverse nella vita. Dunque fa in modo di scoprire la propria strada per essere felice, lasciando che gli altri trovino la loro.

96. In definitiva si tratta di adempiere quello che richiedevano gli ultimi due comandamenti della Legge di Dio: «Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). L’amore ci porta a un sincero apprezzamento di ciascun essere umano, riconoscendo il suo diritto alla felicità. Amo quella persona, la guardo con lo sguardo di Dio Padre, che ci dona tutto «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), e dunque accetto dentro di me che possa godere di un buon momento. Questa stessa radice dell’amore, in ogni caso, è quella che mi porta a rifiutare l’ingiustizia per il fatto che alcuni hanno troppo e altri non hanno nulla, o quella che mi spinge a far sì che anche quanti sono scartati dalla società possano vivere un po’ di gioia. Questo però non è invidia, ma desiderio di equità.

L'Amore... non si vanta

Il verbo vantare traduce Ou περπερεύεται (ou perpereuetai): 1. vantarsi; 2. esibizione di sé, impiegando abbellimenti retorici nell'esaltare eccessivamente se stessi.
L'amore non cerca di impressionare l'altro, cercando di vantarsi. Il vanitoso è colui che cerca di dare consistenza al nulla. In quel caso, il bene non è più fatto per sé stesso ma per apparire. Il bene che si fa non è più collegato all'amore che è gratuito. Se uno cerca un compenso al bene che fa, allora il suo non è vero amore.

 

Amoris Laetitia n. 97

Senza vantarsi o gonfiarsi

97. Segue l’espressione perpereuetai, che indica la vanagloria, l’ansia di mostrarsi superiori per impressionare gli altri con un atteggiamento pedante e piuttosto aggressivo. Chi ama, non solo evita di parlare troppo di sé stesso, ma inoltre, poiché è centrato negli altri, sa mettersi al suo posto, senza pretendere di stare al centro. La parola seguente – physioutai – è molto simile, perché indica che l’amore non è arrogante. Letteralmente esprime il fatto che non si “ingrandisce” di fronte agli altri, e indica qualcosa di più sottile. Non è solo un’ossessione per mostrare le proprie qualità, ma fa anche perdere il senso della realtà. Ci si considera più grandi di quello che si è perché ci si crede più “spirituali” o “saggi”. Paolo usa questo verbo altre volte, per esempio per dire che «la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica» (1 Cor 8,1). Vale a dire, alcuni si credono grandi perché sanno più degli altri, e si dedicano a pretendere da loro e a controllarli, quando in realtà quello che ci rende grandi è l’amore che comprende, cura, sostiene il debole. In un altro versetto lo utilizza per criticare quelli che si “gonfiano d’orgoglio” (cfr 1 Cor 4,18), ma in realtà hanno più verbosità che vero “potere” dello Spirito (cfr 1 Cor 4,19).

 

L'Amore... non è orgoglioso

οὐ φυσιοῦται (ou physioutai): gonfiare, far esplodere, far gonfiare a) gonfiare, rendere orgoglioso; b) essere gonfio, portarsi in alto, essere orgoglioso. In greco non esiste la parola orgoglio. Il termine usato significa gonfiare, riempire di aria. È il caso di quando si vuole dare una esagerata immagine di sé. Ha a che fare anche con l'arroganza.

 


Elkanà e Anna

All’inizio dei libri di Samuele troviamo la storia di una coppia, Elkanà e Anna, che saranno i genitori del profeta Samuele (1 Sam 1-2). Elkana di Rama ha una seconda moglie, Peninnà. Anna è sterile mentre Peninnà ha già dato al marito dei figli. Non sorprende che Elkana ami di più Anna, la moglie sterile (anche Giacobbe preferiva Rachele, inizialmente sterile, a Lia).

Di Anna, nel testo biblico non si dice mai che è “sterile”, come Sara, o Rebecca, come Rachele, come la madre di Sansone, e poi nel NT come Elisabetta. Di Anna, l’autore dice, per ben due volte, che “non aveva figli, perché il Signore aveva chiuso il suo grembo” (1,2.5).

Peninna appare solamente nella scena di apertura della storia (1,1-8). È poi ignorata essendo in gergo tecnico un personaggio di contrasto: ha la funzione di mettere in risalto per contrapposizione una caratteristica del personaggio principale, in questo caso si tratta della sterilità di Anna.

La coppia che ci viene presentata all’inizio del Primo libro di Samuele, è forse per noi una coppia “strana”. Elkanà è un poligamo, ha due mogli. Certamente nulla di strano per la cultura del tempo ma non così per noi. Tuttavia la loro vicenda è interessante perché ci fa vedere come Dio cammina con le coppie, le famiglie, così come le trova il Dio biblico, entra in una cultura ma non si limita a fotografarla ma la interpella; così la vicenda della coppia costituita da Elkanà e Anna ci dimostra come, anche in spazi segnati da una cultura e da strutture sociali, è possibile vivere un amore nella libertà.

1. La priorità dell’amore in ogni relazione

Questa situazione però porta a un duro scontro familiare tra le due donne. Peninna trova ogni occasione per umiliare Anna perché Dio l’ha resa sterile (1,6) ed Elkana nel tentativo di consolarla le sussurra:

«Anna, perché piangi? Perché non mangi?
Perché è triste il tuo cuore?
Non sono forse io per te meglio di dieci figli?» (1,8).

Questa semplice frase, piena di ripetuti e accorati interrogativi, racchiude tutta la storia di coppia di Elkanà e Anna. È un rapporto di coppia che sembra segnato da tristezza e dolore: una donna che piange, che ha il cuore triste, che non mangia, e un uomo che si chiede sconfortato perché la sua presenza e il suo amore non siano sufficienti a dare senso alla vita della sua compagna.

Si tratta di un dolore che ha la sua radice in un intenso amore coniugale, quello che vorrebbe realizzare il bene dell’altro. Questo dolore per una sterilità biologica sembra divenire la causa di una sterilità che investe tutta la vita affettiva ed emotiva: Anna appare irrimediabilmente persa e chiusa nel pensiero della sua sterilità e ciò stende un velo di morte su tutto. Anche sull’amore di Elkanà per lei.

2. Capire tu non puoi, tu chiamale se vuoi… emozioni…

(Mogol - Battisti)

Nel testo di 1Sam, la vicenda di Elkanà e Anna non sembra nulla di particolare: la presenza delle due mogli non sembra costituire un problema particolare, fa parte della consuetudine del tempo. La discendenza filiale è attribuita a Peninnà come un dato di fatto e l’autore si limita a una semplice descrizione dei fatti: quella che lui vede e quella che appare pubblicamente agli occhi della società.

Elkanà, da parte sua, si impegna anche a fare in modo che Anna non subisca ulteriori umiliazioni dal giudizi della gente. Anche per questo le elargisce una parte maggiore di quanto le sarebbe spettato, per mascherare la sua sterilità alla gente che la vedeva.

Ora egli soleva dare alla moglie Peninnà e a tutti i figli e le figlie di lei le loro parti. Ad Anna invece dava una parte speciale, poiché egli amava Anna, sebbene il Signore ne avesse reso sterile il grembo. (4b-5).

Questa stessa “quiete” può essere invece fonte di profondo dolore per chi la vive nella propria più intima interiorità. A volte accade che la realtà vera della nostra vita interiore non appare altrettanto chiara e trasparente per chi la osserva dall’esterno. Capire cosa prova nel profondo del cuore una persona non è affatto semplice.

 

Possibile che il mio coniuge, nonostante tutto quello che si è condiviso, non veda la cosa alla stessa maniera e non senta le mie stesse emozioni?

 3. La scelta di “fermare l’offesa”

Anna continua a non ribattere alle continue mortificazioni di Peninnà. Si chiude in sé, sfoga la sua sofferenza in un pianto silenzioso e nel rifiuto di prendere cibo. In realtà, anche Peninnà vive una condizione di donna infelice e scontenta. Il marito, infatti, non le mostra né affetto, né attenzioni. Ai suoi occhi, lei è priva di un reale valore, è utile solo perché feconda, perché gli ha dato dei figli. E così, la gelosia e la mortificazione che Peninnà riversa su Anna sono un modo con cui lei manifesta e sfoga il suo disagio.

La scelta di Anna è un’altra: lei, pur provando una grande afflizione interiore, non risponde alle offese, perché si rende conto che reagire agli insulti o rinfacciare alla rivale di non essere amata dal marito significherebbe innescare una catena di offese e rivalse senza fine che non gioverebbe a nessuno. Pertanto, lei non mette in atto alcun gesto di violenza in risposta all’umiliazione e al disprezzo. Anna non si mette in competizione ma sceglie di fermare l’offesa su di sé, di patirla, per non espanderla facendo crescere il suo dolore.

La stessa modalità Anna la assume nei confronti del marito. Elkanà, infatti, non si rende conto che le parole consolatorie che rivolge alla moglie, sono vacue, anzi irritanti (1,8). Pur amando la moglie, non riesce ad entrare in sintonia con la sua sofferenza interiore e la delusione per la mancanza di un figlio. 

4. Perseverare nel pensare un futuro diverso

E intanto – senza che se ne accorga – la rinuncia a reagire diventa in lei una vera forza che la spinge a sognare un futuro diverso: decide di aprire il cuore al Signore, sicura di non essere fraintesa né delusa. Si alza ed entra nel Santuario:

«Ella aveva l’animo amareggiato e si mise a pregare il Signore piangendo dirottamente. Poi fece questo voto: Signore degli eserciti, se vorrai considerare la miseria della tua schiava e ricordarti di me, se non dimenticherai la tua schiava e darai alla tua schiava un figlio maschio, io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita” (1Sam 1,10-11).

Con la storia di Anna inizia la tradizione della preghiera privata. Infatti Anna è la prima ad entrare in un santuario, non per un culto pubblico o un sacrificio, ma semplicemente per parlare in modo confidenziale con Dio usando parole che escono dal profondo del cuore. Anna conosce come dar sfogo alla sua amarezza e presentarla a Dio per poi rimanere là in silenzio alla sua presenza. Non ha neppure paura di spiegare quello che sta facendo al sacerdote, rappresentante del culto ufficiale, il quale convinto dalle sue parole la congeda benedicendola con un augurio. La preghiera personale di Anna ha già sortito un primo effetto: “mangiò e il suo volto non fu più come prima” (1,18). Dio le aveva rasserenato il cuore.

La perseveranza è l’entrare in quella dimensione dinamica della vita, della storia, della fede. Riconoscere la pienezza della parola di Dio, non solo ancorata all’origine ma anche nel suo divenire, perché Dio è continuamente presente nella storia dell’umanità e nelle storie di tutti gli uomini con la sua forza creatrice che perennemente fa nuove tutte le cose.

Allora essere fecondi non può riguardare solo la trasmissione della vita in senso procreativo, ma modalità generative di più ampio respiro.

 

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